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Hubble, guardandoli, disse all’improvviso: «Ken, biso­gna dir loro come stanno le cose. Ora, subito. Finché non sa­pranno la verità, non riusciremo a convincerli a fare ciò che è necessario.»

«Non ci crederanno» rispose Kenniston. «Oppure, se ci crederanno, nascerà un pandemonio.»

«Può darsi. Ma dobbiamo correre questo rischio. Dirò al sindaco di trasmettere un comunicato dalla stazione radio.»

Quando Kenniston stava per scendere a sua volta, davanti al Municipio, Hubble lo fermò.

«Non ho bisogno di te, per ora, Ken. So che sei preoccu­pato per Carol. Va’ a vederla e cerca di tranquillizzarla.»

Kenniston proseguì in macchina verso nord, nelle strade già quasi completamente deserte. Il freddo era sempre più intenso e le foglie degli alberi e dei cespugli pendevano stra­namente, rigide e senza vita. Si fermò al suo alloggio. La pa­drona di casa lo accolse con un torrente di domande, alle quali Kenniston rispose brevemente informandola che avrebbero trasmesso un esauriente comunicato radio. La donna corse ad accendere l’apparecchio. Kenniston salì in camera sua e ingollò un bicchiere di whisky. Poi si affrettò verso la casa di Carol.

Dal camino della casa di lei, come da tutti i camini della città, si levava il fumo. Trovò Carol e sua zia accanto al cami­netto acceso.

«Non sarà abbastanza» disse Kenniston alle due don­ne. «Bisogna accendere subito la caldaia del termosifone. Bisogna anche mettere i doppi vetri alle finestre.»

«In giugno?» balbettò perplessa la signora Adams.

«Tu sai molte cose che non vuoi dirci, Ken» disse Carol. «Forse lo fai per non impressionarci, ma... desidero sapere cosa accade.»

«Non appena accesa la caldaia e montate le doppie fine­stre, ti dirò ogni cosa» replicò Kenniston con voce stanca. «Accendete la radio, intanto, signora Adams, e tenetela ac­cesa.»

Gli sembrava strano che, per difendersi dalla fine del mondo, occorresse affaccendarsi attorno a una caldaia in un freddo sotterraneo, montare doppi vetri e imprecare contro i ganci arrugginiti. Lavorava all’esterno, in una oscurità quasi totale, con le mani irrigidite dal gelo.

Come se non potesse più sopportare l’attesa, Carol uscì anche lei, mentre Kenniston finiva il suo lavoro. Un’esclama­zione della ragazza lo fece sobbalzare, pronto a qualsiasi eve­nienza. Ma Carol, ritta, guardava il cielo a oriente. Una luna enorme, mostruosa, di un color rame opaco, stava salendo nel cielo. Non era come erano abituati a vederla, era una Lu­na ingrandita innumerevoli volte, coi crateri, le pianure e le catene di montagne perfettamente visibili a occhio nudo: un’immagine paurosa. Kenniston ebbe un momento di verti­gine, quasi la sensazione che quella massa enorme cadesse su di loro e li schiacciasse. Carol lo aveva afferrato per le braccia, in una stretta così angosciata che Kenniston dimen­ticò del tutto l’orribile spettacolo.

«Ma che cosa accade?» gridò la fanciulla, e per la prima volta la sua voce si fece stridula, come se stesse per soccom­bere a una crisi di nervi.

In quel momento, la signora Adams li chiamò dalla porta.

«Venite, presto! Sta parlando il sindaco. Deve fare di­chiarazioni importanti!»

Kenniston condusse Carol in casa. Sì, importanti dichia­razioni davvero, pensava. Le più importanti che fossero mai state udite.

La fine del mondo avrebbe dovuto essere annunciata da una voce di tuono, che venisse dal cielo: dalle trombe degli arcangeli, non dalla voce spaventata e tremante del sindaco Bertram Garris.

5

L’aurora rossa

Kenniston fu svegliato, il mattino seguente, dallo stridulo ri­chiamo del telefono. Si alzò dal divano, intontito dal sonno, oppresso da cattivi presagi, e si avvicinò incespicando all’ap­parecchio. Fu solo quando udì la voce di Hubble che la sua mente si schiarì e si ricordò di quanto era accaduto il giorno prima.

Hubble parlò brevemente.

«Puoi venire qui subito, Ken? Al deposito di carbone di Keystone. Temo che si verificheranno dei disordini.»

Kenniston uscì nel mattino gelido.

Era ancora quasi buio, il sole smorto non si era del tutto levato e si attardava a oriente, come un mostro bavoso lordo di sangue. Riempì d’acqua il radiatore della macchina, che aveva svuotato la sera prima. Kenniston si accorse dapprima che dovunque regnava un grande silenzio. Le sirene degli stabilimenti, il fragore degli autotreni, i fischi perentori delle locomotive, tutto era cessato. Le rose erano tutte morte e il gelo aveva annerito i cespugli e i rami degli alberi.

Le strade erano deserte. Middletown aveva assunto, in una notte, l’aspetto di una tomba. Il fumo saliva da tutti i co­mignoli e la gente se ne stava rintanata nelle case. Visi smorti apparivano dietro i vetri delle finestre incorniciate di gelo. Da ogni chiesa veniva il suono di inni e preghiere. Anche i bar erano affollati, perché erano rimasti evidentemente aperti tutta la notte, a dispetto della legge sull’ora di chiusura.

Kenniston capì che la città sarebbe morta in breve tempo. Il combustibile si sarebbe presto esaurito e, senza di esso, non vi era modo di sopravvivere. Fu afferrato da un senso di completa disperazione. Gli sembrava una beffa che Middle­town fosse sopravvissuta al più grande cataclisma della sto­ria, solo per perire miseramente di freddo.

Un pensiero gli balenò nella mente, un pensiero che co­minciava appena a prendere forma. Quel pensiero mitigava un poco la sua disperazione, ma, prima che potesse ben chia­rirlo, giunse al deposito di carbone di Keystone. In quel po­sto, in contrasto con la quiete mortale della città, vi era abba­stanza vita e rumore.

Agenti di polizia e della Guardia Nazionale avevano for­mato cordoni attorno al deposito e ai suoi grossi mucchi di carbone. Di fronte a essi stava tutta una folla dall’aspetto po­co rassicurante, che si limitava per il momento a gridare, ma che presto sarebbe passata ai fatti.

Hubble gli venne incontro dall’interno del deposito. Erano con lui un ufficiale di polizia, preoccupatissimo, e Borchard, il proprietario del deposito.

«Volevano saccheggiare il deposito» lo informò Hub­ble. «Poveri diavoli! Era estate, prima, e si sono trovati sen­za combustibile. Alcuni hanno persino bruciato i mobili, per tenersi in vita.»

«Non vogliamo che ci siano vittime. E in questo momento si lasceranno convincere da voi scienziati più che da chiunque altro» disse Borchard.

Hubble fece un cenno affermativo.

«Parlagli, Ken. Li conosci meglio di me, e di te hanno più fiducia.»

«Ma non mi ascolteranno!» protestò Kenniston. «E d’altra parte, che cosa dovrei dir loro? “Andate a casa, brava gente, a morire tranquillamente di freddo, e non facciamo scenate disgustose.”»

«Forse non ci sarà affatto bisogno che muoiano di fred­do» disse Hubble. «Forse un rimedio c’è.»

Il pensiero che già si era formato nella mente di Kenni­ston, gli ritornò d’improvviso alla memoria. Guardò Hubble e si accorse subito che il suo superiore aveva avuto quel me­desimo pensiero, ma vi aveva dato forma più rapidamente, e in modo più chiaro. Una scintilla di speranza cominciò a ri­scaldare il suo cuore.

«La città protetta dalla cupola» disse.

Hubble fece un cenno di assenso.

«Sì. Conserva il calore in grado considerevole, durante la notte. Questo lo abbiamo constatato. Per questa ragione la cupola è stata costruita... chissà quanto tempo fa. Ma non importa. È ora il nostro solo rifugio. Dobbiamo andar là, Ken, tutti là. E presto! Non possiamo sopravvivere a molte notti come questa, rimanendo a Middletown!»

La folla cominciava a disperdersi quando arrivò Kimer, il capo della polizia. Aveva il viso con la barba di due giorni, l’e­spressione stanca per la notte insonne e gli occhi cerchiati di rosso. Non parve molto preoccupato della sommossa al de­posito di carbone.