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«Da qui possiamo seguire la strada» osservò Rastadt.

«Se vedete da che parte va… Avanti, seguitela» disse Forzon.

Mentre esitavano, intorno a loro i cespugli sferzarono ed eruppero, delle mani invisibili afferrarono Forzon, e un oggetto contundente gli sfiorò la testa colpendolo di striscio sulla spalla. Istintivamente Forzon piroettò su se stesso, afferrò uno dei suoi aggressori e lo mandò a rotolare fra gli altri. Risuonarono delle grida e un urlo di dolore. Una voce gridò qualcosa, forse un comando. Forzon evitò un altro paio di mani protese, fece alcuni rapidi passi di lato e si infilò nuovamente fra gli alberi.

Dietro di lui ribolliva la confusione. A un tratto fiammeggiò una torcia e nella luce tremolante egli riuscì a distinguere degli uomini in divisa, con mantelli sino al ginocchio. Si allontanò più presto che poté, maledicendo i cespugli che frusciavano e lo fustigavano a ogni passo.

La sua unica idea era di andare a cercare aiuto. Si sentiva capace di qualsiasi atto di coraggio gli venisse richiesto; ma in un agguato teso a due uomini, nel buio, da una compagnia armata, il coraggio non serviva. Forzon fuggì, dirigendosi verso la sede della Squadra B, nel modo più diretto che gli fosse consentito dal groviglio della foresta. Se Rastadt era fuggito avrebbe senza dubbio fatto la stessa cosa. Se invece era stato catturato, bisognava informare subito la Squadra B. Gli agenti dovevano essere avvisati prima di cadere anch’essi nella trappola.

Le voci della notte erano vertiginose. Gli alberi sussurravano al minimo soffio di vento; degli insetti stranamente musicali facevano sporadicamente udire i loro cori e un uccello notturno emise un bizzarro grido umano di orrore. Avanzando con una fretta disperata, Forzon distanziò presto i suoi inseguitori.

La foresta a un tratto finì. Forzon cambiò direzione e ritrovò la strada. Si mise a correre. La luna uscì da dietro le nubi, e la debole luce accarezzava la sua lunga veste rendendola luminescente. Deciso a non fermarsi neanche quel tanto che bastava a togliersela di dosso, la strinse sul corpo e continuò a correre. Alla sua destra vi era un campo coltivato, a sinistra qualcosa che somigliava a un prato, con una rozza barriera di legno che fiancheggiava la strada. Correva a brevi falcate, inciampando di frequente nei solchi dei carri e quando non poté più correre camminò a passo rapido, respirando affannosamente. Stava risalendo l’ultimo tratto della lunga china che portava alla base campale della Squadra B e già distingueva la sagoma scura della casa sulla cresta della collina, quando improvvisamente la luce si spense.

Arrivato in cima si fermò un attimo, vacillando, e si guardò intorno. Esitò. Laggiù nella valle alcune luci brillavano ancora, tenui come fantasmi, attraverso la nebbiolina. La fattoria era a pochi passi dalla strada, scura e minacciosa anche nei brevi attimi in cui la luna si mostrava; ma la sua sagoma rassicurò Forzon. Riconobbe l’inconsueta architettura che aveva già visto sui dipinti esposti alla base, i muri ricurvi sovrastati da un tetto ingobbato. Si avvicinò risolutamente, inciampò su due bassi gradini che scendevano verso l’ingresso, fece un profondo respiro e bussò.

Di colpo il rumore degli insetti cessò, un uccello represse il suo grido e volò giù dal tetto. Un silenzio misterioso si stese su di lui.

Bussò nuovamente.

La porta si aprì e un uomo gli si parò davanti, tenendo alta una torcia accesa. Indossava un solo indumento simile a una gonna e la luce vacillante si rifletteva pallida sul suo torace e sulle braccia nude. Per un attimo rimase incerto e scrutò Forzon con aria incredula. Poi alzò la mano libera come per proteggersi, lanciò un urlo acuto e lasciò cadere la torcia. Forzon col pensiero sempre rivolto agli inseguitori che lo potevano raggiungere da un momento all’altro, balzò all’interno, raccattò la torcia che crepitava, chiuse e sprangò la porta. Chiese prima in galattico poi in kurriano: «Chi è il capo, qui?». L’uomo indietreggiò, col viso impietrito dal terrore, la bocca spalancata che emetteva suoni incomprensibili. Una donna balzò in avanti con una bambina in braccio. Si gettò gridando sul pavimento e alzò una mano implorante. La bambina dagli occhi immensi aggiunse il suo piagnisteo alla confusione generale.

Forzon si guardò intorno, smarrito, sprecando preziosi secondi nello sforzo disperato di trovare un significato qualsiasi a una situazione assolutamente incomprensibile. Nell’agitazione del suo cervello, le congetture rimbalzavano l’una sull’altra, e ognuna lo lasciava interdetto più della precedente.

Quella non era la sede della Squadra B.

L’uomo di fronte a lui non lo capiva. Trasalì ricordando che al momento dell’agguato erano stati gridati degli ordini che lui non aveva capito.

Questa gente aveva il naso di proporzioni normali. Come il suo al naturale.

Non era in Kurr.

Il suo sguardo, ora pieno di panico, passò rapido in giro per la stanza e si concentrò sulla parete opposta, dove la luce tremolante faceva appena intravedere la sagoma di alcuni dipinti. Alzò la torcia e si avvicinò. Dipinti meravigliosi.

Era nel Kurr.

Gli indigeni non lo capivano e lui non li capiva. La lingua che lui parlava non era il kurriano.

In un lampo d’intuito, capì tutta la malvagia enormità del tradimento di Rastadt. Il coordinatore aveva fatto imparare a Forzon un’altra lingua, gli aveva fatto indossare un costume forestiero che atterriva gli indigeni, come se non bastasse lo aveva munito di un atroce naso finto, lo aveva guidato in un’imboscata, e si era tranquillamente eclissato. Se non fosse stato per il fortunato concorso dell’oscurità e della confusione, Forzon a quest’ora si sarebbe trovato sulla via dell’involontaria pensione in uno di quei villaggi popolati dai monchi di Re Rovva.

Con gli inseguitori alle calcagna, non poteva rimanere dov’era. Non sapeva dove andare.

Gli occhi dell’uomo erano fissi sul viso di Forzon, come ipnotizzato dalla bruttezza arricciolata del suo naso finto a proboscide. La donna fissava la sua veste. Egli riconobbe quella espressione. L’aveva vista spesso nelle gallerie d’arte, nei concerti: il rapimento nell’ammirare la bellezza.

La veste era bella. Fili d’oro lucenti si intrecciavano nel tessuto bianco spumoso. La sua meravigliosa morbidezza possedeva una lucentezza che rifletteva un alone splendente nella luce più fioca.

Forzon si strappò il nasone dal viso, lo buttò in terra, lo calpestò col tacco del sandalo, lo schiacciò con forza. Ma continuava a mantenere la sua forma. Deluso lo gettò nella cenere ardente di un braciere posto sul tavolo. Non bruciò ma si fuse in un attimo diventando un piccolo residuo senza forma. Prese le molle e rimescolò le ceneri coprendolo.

Poi infilò la torcia in un gancio murale e con calma si tolse la veste.

La donna lo guardava a bocca aperta; l’uomo continuava ad emettere gorgoglii isterici. Forzon piegò la stoffa spumosa, ne fece un involto, si avvicinò alla donna, sì inchinò profondamente. «Ecco» disse tetramente. «Ti piace? È tua.»

Lei rimase immobile a guardarlo istupidita. Allora egli pose l’involto in terra, davanti a lei, e si fece indietro. Aveva indosso solamente una muta cortissima che gli era stata assegnata come biancheria personale, e si sentì infreddolito e un po’ ridicolo.

L’uomo guardava fisso la veste come se la notasse appena allora. Disse qualcosa. La donna rispose e mise in terra la bambina in modo da poter stendere una mano, timorosamente e accarezzare la ricca stoffa. L’uomo si avvicinò e cominciarono a parlare agitatamente.

Improvvisamente si udirono delle voci di là dalla porta. Furono bussati tre forti colpi. L’uomo e la donna si guardarono in faccia, poi guardarono Forzon trasognati. I colpi risuonarono nuovamente. Una voce ruggì un comando.