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Poi i dadi, che intanto erano passati al Grosso Fungo alla sua destra, si arrestarono verso il centro del tavolo e contraddissero e cancellarono la visione di Joe. Subito dopo lo colpì un’altra stranezza. I dadi d’avorio erano grossi e insolitamente smussati agli angoli con puntini scarlatti che brillavano come rubini, ma i puntini erano disposti in modo che ogni faccia sembrasse un cranio in miniatura. Il sette appena lanciato, che aveva fatto perdere al Grosso Fungo il proprio punto, che era un dieci, consisteva in un due con i puntini spaziati verso un lato e disposti come occhi, invece di trovarsi ad angoli opposti, e di un cinque con gli stessi occhi sanguigni ma con un naso al centro e di sotto due punti ravvicinati che segnavano la dentiera.

Il lungo braccio scarno della ragazza dei dadi, inguainato di bianco, serpeggiò come un cobra albino per raccogliere i dadi, spingendoli verso il bordo del tavolo proprio davanti a Joe. Questi sospirò, prese una fiche e fece per deporla accanto ai dadi, poi si rese conto che non era così che si procedeva in quel luogo e la rimise al suo posto. Gli sarebbe però piaciuto esaminare con maggiore attenzione quella fiche. Era infatti curiosamente leggera e brunastra, all’incirca color del caffellatte e sulla sua superficie c*era inciso un simbolo invisibile, che però era in grado di sentire al tasto. Non sapeva di che simbolo si trattasse, per capirlo avrebbe dovuto tastarla meglio, tuttavia quel contatto gli aveva giovato, perché aveva richiamato in pieno la forza nella mano pronta al lancio.

Joe guardò con apparente distrazione i volti attorno al tavolo, compreso quello del Grande Giocatore di fronte a lui e disse piano: — Punto un penny — col che naturalmente si riferiva a una fiche chiara, o a un dollaro.

I Grossi Funghi emisero tutti grandi sibili d’indignazione e la faccia da luna piena del grasso Mister Bones divenne paonazza, mentre l’uomo faceva per chiamare i buttafuori.

Il Grande Giocatore però sollevò un avambraccio rivestito di raso nero e una mano ben curata con la palma rivolta verso il basso. Mister Bones si bloccò di colpo e i sibili cessarono istantaneamente, come succede quando una meteora fora l’acciaio di uno scafo autosigillante. Poi, con voce educata, bassa, e senza il minimo accenno di derisione, l’uomo in nero disse: — Accettatelo, giocatori.

Per Joe, quella era la conferma definitiva dei suoi sospetti, se mai di una conferma ci fosse stato bisogno. I giocatori veramente grandi erano sempre perfetti gentiluomini e generosi verso i poveri.

Uno dei Grossi Funghi, con solo un accenno rispettoso di riso, disse rivolto a Joe: — Va bene.

Joe raccolse i dadi coi puntini di rubino.

Joe Slattermill era sempre stato estremamente abile nei lanci di precisione, fin da quando aveva preso due uova su un solo piatto, aveva vinto tutte le biglie di Ironmine e aveva lanciato cinque cubi con le lettere dell’alfabeto in modo che, ricadendo in sequenza sul tappeto, formassero la parola “Mamma”. Nella miniera riusciva a far rimbalzare una pietra contro la parete in modo da spaccare al buio il cranio di un topo a quindici metri di distanza. E a volte si divertiva a lanciare piccoli frammenti di roccia nei buchi da cui erano caduti, in modo che vi si incastrassero alla perfezione per almeno un secondo. Talvolta, invece, riusciva a far rientrare, come in un puzzle, sette o otto frammenti nello stesso buco. Se fosse mai riuscito ad andare nello spazio, Joe sarebbe di certo riuscito a pilotare contemporaneamente sei slitte lunari e a tracciare un otto tra gli anelli di Saturno con gli occhi bendati.

Ora, l’unica vera differenza tra il lancio di sassi o dei cubi e quello dei dadi è che questi ultimi vanno fatti rimbalzare contro la parete di fondo del tavolo, e questo rappresentava per Joe una sfida ancora più interessante alla propria abilità.

Adesso, mentre agitava i dadi, sentiva la forza nelle dita e nella mano, come mai l’aveva avvertita prima.

Lanciò basso e i dadi finirono esattamente davanti alla ragazza dei dadi in guanti bianchi. Il suo sette naturale era costituito, come aveva voluto lui, da un quattro e da un tre. Nei lineamenti formati dai puntini rossi, erano come i cinque, solo che entrambi avevano un dente solo e il tre era privo di naso. Specie di teschi infantili. Aveva vinto un penny, cioè un dollaro.

— Punto due cent — disse Joe Slattermill.

Questa volta, tanto per cambiare, la sua abilità gli procurò un undici. Il sei era simile al cinque, solo che aveva tre denti, ed era il teschio più bello di tutti.

— Punto un nichelino meno uno.

Due Grossi Funghi si divisero quella scommessa con un mezzo sogghigno.

Questa volta Joe tirò un tre e un asso. Il punto era quattro. Anche l’asso, col suo unico punto fuori centro, spostato verso un lato, riusciva comunque a sembrare un teschio, forse di un ciclope lillipuziano.

Ci mise un po’ di tempo a fare il punto, una volta tirando distrattamente tre dieci di seguito nel modo più difficile, perché voleva osservare la ragazza dei dadi mentre li raccoglieva. Ogni volta gli sembrava che le dita serpentine di lei si infilassero sotto i dadi mentre questi erano ancora appoggiati sul feltro. Alla fine si convinse che non si trattava di un’illusione. Anche se i dadi non potevano sprofondare nel tappeto nero, le dita guantate di lei sì, e si infilavano veloci nel feltro nero e scintillante come se neanche esistesse.

Immediatamente a Joe tornò in mente l’idea di un foro grande quanto un tavolo e che attraversava tutta quanta la terra. Questo avrebbe voluto dire che i dadi rotolavano per fermarsi su una superficie trasparente e liscia, impenetrabile a essi ma non ad altro. O forse erano solo le dita della ragazza dei dadi che riuscivano a penetrare quella superficie, il che faceva diventare una fantasia la visione precedente di un giocatore ripulito che si tuffava in quell’orrendo pozzo senza fine, al cui confronto perfino la miniera più profonda era solo un buco di spillo.

Joe decise che doveva scoprire quale ipotesi fosse vera. A meno che non fosse assolutamente inevitabile, non voleva correre il rischio di essere distratto dalla vertigine in una fase saliente del gioco.

Così fece di tanto in tanto qualche altro lancio modesto, limitandosi a brontolare tanto per dare un tocco di realismo: — Su, forza piccolo Joe. — Alla fine si decise. Quando alla fine fece il punto… il più difficile, con due due, fece piroettare i dadi nell’angolo opposto in modo da farli fermare esattamente davanti a lui. Infine, dopo una pausa appena sufficiente per mostrare il risultato del lancio agli altri, infilò la mano sotto i dadi, appena un istante prima che la ragazza dei dadi si muovesse, e li sollevò.

Fiuuu! Mai in vita sua Joe aveva faticato tanto a controllare il viso e i modi così da nascondere quello che il suo corpo sentiva, neppure quando la vespa l’aveva punto sul collo proprio quando aveva infilato per la prima volta la mano sotto la gonna della sua incostante, pudica ed esigente futura Moglie. Le dita e il dorso della mano gli facevano un male tremendo, come se li avesse infilati in una fornace… Ecco perché la ragazza aveva quei guanti bianchi; dovevano essere di amianto. E fortuna che non aveva usato la mano impiegata per lanciare i dadi, pensò, mentre osservava la mano riempirsi di vesciche.

Ricordò allora come a scuola gli avessero insegnato qualcosa che poi la Miniera di Twenty Mile gli aveva dimostrato: e cioè che sotto la crosta della terra covava un calore terrificante. Il buco a forma di tavolo dei dadi doveva servire a incanalare quel calore, in modo che ogni giocatore che avesse fatto il Grande Tuffo sarebbe bruciato prima di aver percorso duecento metri e sarebbe uscito, ormai ridotto in cenere, in Cina.

Ma come se non bastasse quella mano coperta di vesciche, adesso i Grossi Funghi avevano ripreso tutti quanti a sibilare contro di lui, e Mister Bones, di nuovo paonazzo in volto, stava per aprire quella boccaccia grande quanto un melone per chiamare i suoi scagnozzi.