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Ancora una volta però il Grande Giocatore alzò la mano salvando così Joe. Con voce suadente e delicata l’uomo disse: — Glielo dica, Mister Bones.

Quest’ultimo ringhiò, rivolto a Joe: — Nessun giocatore può raccogliere i dadi buttati da lui o da qualsiasi altro giocatore. Solo la ragazza addetta può farlo. È il regolamento della casa!

Joe fece appena un cenno d’assenso in direzione di Mister Bones e disse freddamente: — Punto un centesimo meno due — e quando quella misera puntatina fu coperta, lanciò Phoebe non per il punto ma dilungandosi in lanci di ogni genere, facendo uscire di tutto tranne il cinque o il sette, aspettando che il dolore alla mano sinistra svanisse e lui ritrovasse i nervi saldi. Non aveva riscontrato la minima alterazione nella potenza della sua mano destra; la sentiva forte come sempre, forse addirittura di più.

A metà di questo interludio, il Grande Giocatore fece un leggero inchino, ma rispettoso, all’indirizzo di Joe, sempre nascondendo quelle sue orbite imperscrutabili, prima di girarsi per prendere una lunga sigaretta nera dall’accompagnatrice più carina, ma anche dall’aria più perfida. Era caratteristica del maestro dei giochi d’azzardo mostrare la cortesia in ogni gesto, pensò Joe. Il Grande Giocatore aveva certo una corte di duri, anche se, mentre si apprestava a lanciare i dadi, Joe notò oziosamente un individuo all’estremità del gruppo che stonava. Un tipo rozzamente elegante con capelli scarmigliati, gli occhi fissi e le guance maculate dalla tbc, da poeta.

Mentre osservava il filo di fumo che saliva da sotto il cappello nero, Joe decise che o le luci dalla parte opposta del tavolo si erano abbassate o la carnagione del Grande Giocatore era più scura di quanto gli era dapprima sembrato. O forse, assurda fantasia, la pelle del Grande Giocatore si stava lentamente scurendo quella sera, come una pipa di schiuma fumata ad altissima velocità. Un pensiero quasi divertente. Effettivamente lì dentro faceva abbastanza caldo da scurire la semiolite, come Joe sapeva da tristi esperienze, ma da quanto poteva giudicare il calore sembrava stazionare tutto sotto il tavolo.

Pur con tutta la sua ammirazione nei confronti del Grande Giocatore, Joe non riusciva minimamente a sottovalutare l’enorme pericolo rappresentato dall’uomo in nero e dalla convinzione che toccarlo sarebbe equivalso a morire. E se ancora avesse nutrito qualche dubbio, l’agghiacciante episodio che seguì glielo avrebbe senz’altro tolto.

Il Grande Giocatore aveva appena agguantato la sua partner più carina e più perfida, facendole scorrere un’aristocratica mano sul fianco con un gesto da gentiluomo, quando il poeta, con gli occhi verdi per la gelosia e l’amore, si lanciò in avanti come una belva, vibrando un lungo pugnale lucente verso la schiena rivestita di satin nero.

Joe non riuscì a capire come il colpo potesse aver mancato il bersaglio, ma il Grande Giocatore, senza togliere la sua aristocratica mano dal lussureggiante posteriore della ragazza, fece saettare il braccio sinistro come una molla non più trattenuta. Joe non riuscì a capire se avesse pugnalato il poeta alla gola o gli avesse sferrato un colpo di taglio di judo o la doppia ditata marziana, oppure l’avesse solo toccato, ma, in ogni caso, il tizio crollò al suolo, colpito a morte, come abbattuto da un silenzioso fucile per elefanti o da una pistola a raggi invisibili. Poi arrivarono di corsa due negri che portarono via di peso il cadavere, senza che nessuno badasse minimamente a loro, visto che tali episodi erano la norma al Boneyard.

La scena scosse parecchio Joe che per poco non tirò Phoebe prima di quanto intendesse.

Ma ormai il suo braccio sinistro non era più percorso dalle fitte di dolore e i suoi nervi erano come nuove corde di chitarra rivestite di metallo, per cui, dopo tre lanci, fece un cinque, conquistando il punto, e si dispose a ripulire il tavolo.

A quel punto ottenne nove lanci naturali di seguito, ottenendo sette sette e due undici, accumulando sulla fiche di partenza una montagnola di oltre quattromila dollari. Nessuno dei Grossi Funghi aveva ancora mollato, ma alcuni di loro cominciavano ad apparire preoccupati e un paio sudavano abbondantemente. Il Grande Giocatore seguiva con interesse il gioco con le sue profonde caverne orbitali, anche se non aveva ancora coperto una puntata di Joe.

Poi Joe ebbe un’idea demoniaca. Nessuno era in grado di batterlo quella notte, ne era sicuro, ma non sarebbe mai riuscito a vedere il Grande Giocatore sbandierare la sua abilità se avesse continuato a giocare fino a ripulire il tavolo, e la cosa lo incuriosiva parecchio. E poi, in fin dei conti, doveva ricambiare le cortesie e dimostrare di essere anche lui un gentiluomo.

— Punto quarantun dollari meno un nichelino — annunciò. — Un penny sul gioco.

Questa volta non si sentirono sibili e il faccione tondo di Mister Bones rimase sereno. Ma Joe era conscio che il Grande Giocatore lo guardava deluso, o addolorato, o forse stava solo riflettendo.

Joe immediatamente andò fuori gioco tirando un doppio sei, rallegrandosi di vedere i due teschietti migliori sogghignanti l’uno di fianco all’altro, coi rubini per denti, e i dadi passarono al Grosso Fungo di sinistra.

Un altro Grosso Fungo borbottò ammirato, anche se con riluttanza: — Ha capito quando la serie fortunata è finita.

Le puntate non si alzarono di molto; nessuno era veramente accanito e il gioco fece rapidamente il giro del tavolo. — Una pinna. Dieci dollari. Un Andrew Jackson. Trenta dollari. — Joe, che stavolta copriva una puntata più spesso vincendo che perdendo, accumulò settemila dollari, soldi veri, prima che i dadi arrivassero al Grande Giocatore.

L’uomo tenne i dadi per un lungo istante sul palmo della sua mano ferma e bianca, fissandoli assorto, ma sulla sua fronte quasi bruna, su cui non si era mai vista una stilla di sudore, non era visibile la minima increspatura. Poi mormorò: — Punto un doppio dieci — e dopo che la sua scommessa fu accolta, chiuse le dita, scosse leggermene i dadi, che risuonarono come i semi di una zucca semidisseccata, e li buttò con noncuranza verso l’estremità del tavolo.

Mai Joe aveva visto prima d’allora un lancio simile a un tavolo da gioco; i dadi schizzarono in aria, senza roteare, urtarono esattamente il punto d’unione tra la sponda e il feltro nero e lì si fermarono di botto: un sette naturale.

Joe ne fu nettamente deluso, perché per ognuno dei suoi lanci era solito calcolare uno schema preciso, per esempio: “lanciare il tre verso l’alto, il cinque a nord; due giravolte e mezza in aria, urtare con l’angolo del sei-cinque-tre, un giro di tre quarti, con torsione a destra di un quarto, colpire l’estremità con lo spigolo uno-due, mezzo giro a rovescio e torsione a sinistra di tre quarti, ricadere sulla faccia del cinque, doppia rotazione e uscita del due” e questo valeva solo per uno dei dadi, e in realtà si trattava di un lancio del tutto normale senza particolari rimbalzi.

La tecnica del Grande Giocatore era, al confronto ridicola, oltre che abissalmente, orribilmente semplice. Joe sarebbe stata in grado di imitarla con la massima facilità, naturalmente. In fondo non era che una forma elementare del suo vecchio passatempo: quello di rispedire i frammenti di roccia nei loro buchi. Ma a Joe non era mai passato per la testa di ricorrere a un trucco così banale a un tavolo da gioco, perché avrebbe reso tutto troppo facile, rovinando l’armonia del gioco.

Oltretutto Joe non era mai ricorso a quella tecnica, ritenendo che non sarebbe mai riuscito a farla franca. Stando alle regole di sua conoscenza, si trattava di un lancio alquanto discutibile. Poi c’era la possibilità che uno dei dadi non arrivasse a toccare la sponda opposta, oppure si fermasse contro di essa rimanendovi inclinato. E poi, ricordò a se stesso, i due dadi non dovevano forse per regolamento rimbalzare dalla sponda, anche se solo per una frazione di centimetro?