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Stress, ribellione, disprezzo, speranze inconcepibili, curiosità e paura sconvolgevano Joe. Specialmente le ultime due.

La carnagione del Grande Giocatore, da quanto si riusciva a vedere, si faceva sempre più scura. Per un folle istante Joe si chiese se per caso non fosse finito a giocare con un negro, magari uno stregone pieno zeppo di stregoneria a cui stava venendo via la pittura bianca del trucco.

Infine ci fu la puntata del secolo, ma i due Grossi Funghi superstiti non riuscirono a coprirla, così Joe si trovò a dover decidere se puntare qualcosa della sua modesta montagnola o uscire dal gioco. Dopo attimi di tormento interiore, puntò.

E perse il decione.

I due Grossi Funghi si ritirarono barcollando tra la folla silenziosa.

Occhi neri come caverne trafissero Joe. Un sussurro: — Punto l’equivalente del suo mucchio.

Joe sentì montare dentro di sé il vergognoso impulso di dichiararsi battuto e correre a casa. Se non altro, i seimila dollari superstiti avrebbero fatto colpo sulla Moglie e la Mamma.

Ma non avrebbe tollerato lo scherno della folla né il pensiero di vivere sapendo di aver avuto un’ultima possibilità, per quanto esile, di sfidare il Grande Giocatore, e di avervi rinunciato.

Così fece cenno di sì.

Il Grande Giocatore lanciò. Joe si allungò sul tavolo, immemore della vertigine, seguendo il lancio con occhi di rapace o di telescopio spaziale.

— Soddisfatto?

Joe sapeva che avrebbe dovuto confermare e uscire orgogliosamente con la testa più alta che poteva, come si addice a un gentiluomo, ma poi si ricordò di non essere affatto tale, ma solo un minatore sporco e artritico con l’unico talento di fare lanci di precisione.

Sapeva anche che era probabilmente pericoloso per lui dire qualsiasi altra cosa che non fosse un “sì”, perché era circondato da nemici e sconosciuti, ma poi si chiese che diritto avesse lui, miserabile mortale d’un fallito pronto a correre a casa, per pensare ai pericoli.

E poi, uno dei dadi dal teschio sogghignante di rubini appariva solo di una frazione di micron disallineato rispetto all’altro.

Per Joe fu il più grande sforzo di tutta la vita, ma deglutì e alla fine riuscì a dire: — No. Lottie, la prova della carta.

La ragazza dei dadi quasi ringhiò e si piegò all’indietro come se volesse sputargli in un occhio, uno sputo che doveva contenere veleno di cobra, ma il Grande Giocatore la rimproverò con un semplice gesto del dito e la ragazza fece volteggiare la carta verso Joe, ma lanciandogliela così radente e in modo così cattivo che quella scomparve per un istante sotto il feltro nero prima di finire in mano a Joe.

Era calda al tatto e leggermente bruciacchiata, ma per il resto indenne. Joe deglutì e la rilanciò alta.

Con un sorriso che era una trafittura di pugnali avvelenati, Lottie la lasciò scorrere lungo la sponda di fondo… e dopo un istante di esitazione, la carta scivolò dietro il dado sospettato da Joe.

Un inchino e il sussurro: — Lei ha occhi acuti, signore. È evidente che il dado non ha toccato la sponda. Le mie più sincere scuse… ecco i suoi dadi, signore.

E Joe per poco non provò un colpo apoplettico vedendo i dadi posati sul bordo nero davanti a lui. Tutti i sentimenti che lo straziavano, compresa la sua curiosità, raggiunsero l’acme dell’intensità; e dopo che ebbe detto: — Punto tutto — e il Grande Giocatore ebbe risposto: — Ci sto — fu travolto da un impulso irresistibile che lo spinse a lanciare i due dadi direttamente contro gli occhi notturni e opachi del Grande Giocatore.

I dadi penetrarono nel cranio del Grande Giocatore e una volta dentro rimbalzarono da una parete all’altra, risuonando come i grandi semi di una grossa zucca non del tutto matura.

Con le mani stese avanti, a palma in giù, per impedire che qualcuno dei suoi ragazzi e delle sue ragazze si avventasse contro Joe, il Grande Giocatore assorbì i due dadi cubici, poi li sputò, facendoli cadere al centro del tavolo: uno posato di piatto, l’altro reclinato, leggermente appoggiato sul primo.

— Dadi inclinati, signore — osservò educatamente, senza il minimo risentimento per il trattamento che gli era stato fatto. — Un altro lancio, prego.

Joe agitò i dadi, riflettendo mentre cercava di superare lo shock. Dopo un po’, decise che, anche se adesso era in grado di indovinare il vero nome del Grande Giocatore, gli avrebbe concesso ancora la possibilità di spogliarlo di ogni suo avere.

In un recesso della sua mente, Joe si chiedeva come poteva sopravvivere uno scheletro vivente. Le ossa erano ancora munite di cartilagini e tendini, erano collegate da fili metallici o da campi magnetici, oppure ogni osso era solo un magnete di calcio collegato a quello adiacente? o forse tutto era connesso con la generazione della mortale elettricità eburnea.

Nel silenzio generale del Boneyard qualcuno si schiarì la gola, una Donna Scarlatta ridacchiò isterica, dal vassoio della ragazza più nuda del cambio cadde una moneta d’oro che tintinnò e rotolò a terra con note musicali.

— Silenzio — ordinò il Grande Giocatore, e con movimento rapidissimo, quasi troppo rapido per seguirlo distintamente, si infilò una mano sotto la giacca e quando la ritirò fuori la posò sulla sponda del tavolo, dove si materializzò uno scintillante revolver d’argento a canna corta. — Il primo che osa fare rumore, dalla più umile ragazza negra a lei, Mister Bones, mentre il mio stimato avversario tira, si ritrova con una pallottola nella testa.

Joe gli restituì un leggero inchino di cortesia. Si sentiva stranito, poi decise di iniziare con un sette costituito da un asso e da un sei. Lanciò, e questa volta il Grande Giocatore, a giudicare dai movimenti del suo cranio, seguì attentamente la traiettoria dei dadi con quei suoi occhi invisibili.

I dadi caddero, rotolarono e si fermarono, Joe si avvide, incredulo, che per la prima volta da quando giocava aveva sbagliato. O forse negli occhi morti del Grande Giocatore c’era una forza maggiore di quella che fremeva nella sua mano destra. Il dado del sei era uscito bene, ma quello dell’asso aveva fatto una mezza piroetta in più e aveva dato anche lui sei.

— Fine del gioco — sentenziò Mister Bones con voce d’oltretomba.

Il Grande Giocatore sollevò una mano scheletrica. — Non esattamente — sussurrò. Le cavità nere dei suoi occhi erano puntate su Joe come cannoni. — Joe Slattermill, lei ha ancora qualcosa di valore da puntare, se lo desidera. La sua vita.

A quelle parole il Boneyard rimbombò all’istante di risa isteriche e ironiche, di grida e urla incontenibili. Mister Bones riassunse i sentimenti di tutti quando, al di sopra del frastuono generale, urlò: — A che serve o che valore ha la vita di un fallito come Joe Slattermill? Neanche due cent di normale denaro.

Il Grande Giocatore posò la mano sul revolver lucente davanti a lui e tutte le risate d’incanto cessarono.

— Lo so io a che serve — sussurrò il Grande Giocatore. — Joe Slattermill, da parte mia io punto tutte le mie vincite di stanotte e in più vi aggiungo il mondo e tutto quanto in esso contenuto come puntata secondaria. Lei punterà la sua vita, e la sua anima come puntata secondaria. I dadi spettano a lei. Che intende fare?

Joe Slattermill fu percorso da un fremito, ma poi la drammaticità della situazione ebbe il sopravvento su di lui. Rifletté e capì che non avrebbe certo rinunciato a diventare il fulcro dell’attenzione per tornare spennato da sua Moglie e da sua Madre e alla sua casa diroccata e al mesto Mister Guts. Forse, si disse a mo’ di incoraggiamento, forse non c’era alcuna forza nello sguardo del Grande Giocatore, forse lui aveva commesso il suo unico errore nella sua carriera di giocatore. Inoltre, era più incline ad accettare la valutazione che del valore della sua vita aveva fatto Mister Bones, che non quella fatta dal Grande Giocatore.