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Non appena ebbe concepito questo pensiero, rabbrividì d’orrore. Aveva udito vociferare di spagnoli, francesi e portoghesi che vivevano nelle isole calde del Meridione, e che pur essendo Bianchi convivevano apertamente con donne Nere… indubbiamente si trattava dei più infimi rappresentanti della razza umana, alla pari di chi si accoppiava con le bestie. E poi, anche se avesse avuto un figlio da una Nera, come avrebbe potuto farne il suo erede? Per un ragazzo di sangue misto sarebbe stato più facile imparare a volare che entrare in possesso di una piantagione nello Stato degli Appalachi. Cavil scacciò quel pensiero dalla propria mente.

Ma, mentre sedeva a far colazione in camera di sua moglie, quel pensiero fece nuovamente capolino. Cavil si scoprì a osservare la Nera che imboccava sua moglie. Quella donna era egiziana proprio come Agar, no? Notò come il torso si piegasse agilmente sulla vita ogni volta che portava il cucchiaio dal vassoio alla bocca. Notò che quando si chinava in avanti per avvicinare la tazza alle labbra dell’inferma, il seno della serva oscillava in avanti premendo contro la stoffa del vestito. Notò la delicatezza con cui le sue dita toglievano briciole e gocce dalle labbra di Dolores. Immaginò che quelle dita toccassero lui e avvertì un leggero fremito. Ma dentro di lui fu come un terremoto.

Uscì a precipizio dalla stanza senza dire una parola. Una volta fuori di casa, strinse convulsamente il suo salterio.

Purificami dalla mia iniquità e liberami da ogni peccato. Giacché riconosco le mie trasgressioni: e il mio peccato è sempre dinanzi a me.

Eppure, anche mormorando queste parole, alzò lo sguardo e vide le donne di ritorno dai campi che si lavavano all’abbeveratoio. Tra loro c’era la ragazzina che aveva comprato solo qualche giorno prima, pagandola ben seicento dollari anche se era ancora giovanissima, perché probabilmente sarebbe stata una buona fattrice. Fresca di nave com’era, non aveva ancora imparato un’oncia di pudicizia cristiana. Se ne stava lì, nuda come un verme, china sull’abbeveratoio, e si versava ciotole d’acqua sulla testa e sul dorso.

Cavil restò a guardarla come paralizzato. Quella che in camera di sua moglie era stata solo una fuggevole tentazione, adesso divenne un silenzioso parossismo di desiderio. Non aveva mai visto niente di più aggraziato di quelle cosce di un nero bluastro che si strofinavano una contro l’altra, non meno invitanti del brivido che la percorreva mentre l’acqua le ruscellava sul corpo.

Era forse questa la risposta alla sua invocazione? Il Signore gli stava forse dicendo che anche lui doveva comportarsi come Abramo?

Molto probabile invece che sotto ci fosse qualche stregoneria. Chi poteva sapere quali arti segrete possedessero quelle Nere appena arrivate dall’Africa? La ragazzina sapeva che Cavil la stava guardando, e cercava d’indurlo in tentazione. Quelle Nere dovevano essere veramente la progenie del diavolo, per suscitare in lui pensieri così malvagi.

Distolse a forza lo sguardo dalla nuova schiava e si voltò, celando il suo sguardo bruciante nelle parole del libro. Solo che per qualche motivo la pagina non era più la stessa — quando mai l’aveva voltata? — e Cavil si ritrovò a leggere il Cantico dei Cantici.

Le tue mammelle sono come caprioletti gemelli di gazzella, che pascolano tra i gigli.

«Signore aiutami» mormorò. «Allontana da me questo incantesimo.»

Giorno dopo giorno mormorò la stessa preghiera, eppure giorno dopo giorno si sorprendeva a guardare con desiderio le sue schiave, e in particolare la schiavetta recentemente acquistata. Perché sembrava che Dio non gli prestasse ascolto? Non aveva sempre agito rettamente? Non si comportava bene con sua moglie? Non conduceva onestamente i suoi affari? Non versava forse le decime e le altre offerte? Non trattava bene i suoi schiavi? Perché il Signore Iddio non lo proteggeva allontanando da lui quell’incantesimo pagano?

Eppure, nel momento stesso in cui pregava, la sua confessione si trasformava in fantasie peccaminose. O Signore, perdonami per aver pensato alla nuova schiavetta in piedi sulla soglia della mia camera da letto, in lacrime per le frustate prese dal sorvegliante. Perdonami per avere immaginato di farla distendere sul mio letto, e di alzarle la gonna per spalmarle sulla pelle un unguento così potente che le vesciche sulle cosce e sulle natiche spariscono sotto i miei occhi e lei comincia a ridere piano e a dimenarsi lentamente sulle lenzuola e a gettarmi occhiate di sottecchi, sorridendo, e poi si gira e tende le braccia verso di me e… O Signore, perdonami, salvami dalla dannazione eterna!

Ogni volta che gli succedeva, tuttavia, non poteva fare a meno di chiedersi: perché simili pensieri mi attraversano la mente proprio mentre sto pregando? Forse non sono meno giusto di Abramo; forse è il Signore stesso a inviarmi questi desideri. La prima volta non è stato forse mentre leggevo le Scritture? Il Signore può operare miracoli… che accadrebbe se mi unissi alla nuova schiavetta e lei concepisse, e il Signore operasse un miracolo e il bambino nascesse Bianco? Tutto è possibile al Signore.

Questo pensiero era insieme meraviglioso e terribile. Se solo fosse stato vero! Ma Abramo aveva udito la voce del Signore, e non aveva mai potuto nutrire dubbi riguardo a ciò che il Signore voleva da lui. A Cavil Planter, Dio non aveva mai rivolto la parola.

E perché non l’aveva fatto? Perché Dio non glielo diceva a chiare note? Prendi la ragazza, è tua! Oppure: non toccarla, ella ti è interdetta! Signore, fa’ soltanto che io possa udire la Tua voce, per sapere che cosa debbo fare!

Oh Signore, mia fortezza; a Te levo il mio pianto, non tacere: giacché se tacerai temo di diventare come coloro che precipitano nell’abisso.

Un certo giorno del 1810 la sua preghiera venne esaudita.

Cavil era inginocchiato sotto la tettoia del tabacco. Il locale era quasi vuoto, visto che il tabacco dell’anno precedente era stato venduto già da tempo, e il raccolto di quell’anno verdeggiava ancora nei campi. Lacerato tra preghiere, confessioni e oscure fantasie, alla fine esclamò: «Non c’è nessuno che possa udire la mia preghiera?»

«La sento fin troppo bene» disse una voce severa.

Sulle prime Cavil ne restò terrorizzato, nel timore che qualche estraneo — un vicino o magari il suo stesso sorvegliante — avesse udito chissà quale confessione. Ma, quando alzò lo sguardo, vide che non si trattava di nessuno di sua conoscenza. Eppure capì immediatamente che cosa fosse quell’uomo. Dalle braccia nerborute, dal volto bruciato dal sole e dalla camicia aperta — non portava soprabito — dedusse che non si trattava senz’altro di un gentiluomo. Però non era nemmeno un vagabondo bianco, né un venditore ambulante. Quell’espressione severa, la freddezza dello sguardo, la tensione dei muscoli che ricordava la molla compressa di una trappola d’acciaio… Evidentemente era uno di quegli uomini che con la frusta e i ferri sanno mantenere la disciplina tra i Neri che lavorano nei campi. Un sorvegliante. Solo che era più forte e pericoloso di qualsiasi sorvegliante che Cavil avesse mai visto. Capì all’istante che quel sorvegliante avrebbe spremuto fino all’ultima oncia di lavoro dai pigri scimmioni che cercavano di scansare la fatica dei campi. Capì che qualsiasi piantagione condotta da quel sorvegliante avrebbe sicuramente prosperato. Ma Cavil capì anche che non avrebbe mai osato assumere un uomo del genere, perché quel sorvegliante era così forte che Cavil avrebbe ben presto dimenticato chi fosse il padrone e chi il sottoposto.