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«No, non mi sono sentita svenire. Volete perdonarmi? Ho pensato una cosa, ecco tutto. Qualcosa su cui debbo riflettere.»

L’uomo la guardò stranamente. Di solito quando una donna preferiva fare a meno della compagnia di un uomo affermava di essere sul punto di svenire. Ma non la signorina Margaret… Peggy capì che era sconcertato, incerto sul da farsi. L’etichetta dello svenimento era nota a tutti. Ma che cosa doveva fare un gentiluomo davanti a una donna che «aveva pensato una cosa»?

Peggy gli posò la mano sul braccio. «Amico mio, vi assicuro che sto bene, e che mi ha fatto molto piacere ballare con voi. Spero che vi siano altre occasioni. Ma per ora, per il momento, ho bisogno di restare sola.»

Peggy vide che le sue parole l’avevano rassicurato. Chiamandolo «amico mio» gli aveva promesso di ricordarlo; la sua speranza di ballare nuovamente con lui era così sincera che egli non poté fare a meno di crederle. Il suo cavaliere prese quelle parole alla lettera, e s’inchinò con un sorriso. Peggy non lo vide nemmeno allontanarsi.

La sua attenzione era rivolta altrove, a un luogo molto lontano nei pressi di Hatrack, dove Alvin l’Apprendista invocava il Distruttore senza rendersi conto di quello che faceva. Peggy frugò disperatamente nella sua fiamma vitale, cercando qualcosa che le permettesse di proteggerlo. Ma non trovò nulla. Ora che Alvin veniva spronato dalla rabbia, tutti i sentieri conducevano in un unico luogo, e quel luogo la terrorizzava, perché non riusciva a vedere che cosa vi fosse, non riusciva a capire che cosa sarebbe successo. E non c’erano vie d’uscita.

Che cosa stavo facendo a questo stupido ballo, mentre Alvin aveva bisogno di me? Se avessi prestato maggiore attenzione, avrei visto quello che stava per accadere, e forse avrei trovato il modo di aiutarlo. Invece ballavo con gente che per il futuro del mondo conta meno di niente. Sì, tutti sono felici di stare con me. Ma a che pro, se Alvin fallisce, se Alvin l’Apprendista viene sconfitto, se la Città di Cristallo viene distrutta ancor prima che il suo Creatore inizi a edificarla?

VII

I DUE POZZI

Quando il rabdomante se ne andò, Alvin non ebbe bisogno di alzare lo sguardo. In qualsiasi momento poteva percepire dove l’uomo si trovasse, poteva avvertirne la rabbia come un fragore nero che attraversava la dolce musica verde della foresta. Era la maledizione di essere l’unico Bianco, uomo, donna o bambino, che riuscisse a sentire la vita della foresta… Questo significava essere al tempo stesso l’unico Bianco a sapere che la terra stava morendo.

Non che il terreno non fosse fertile: i secoli trascorsi sotto il mantello della foresta avevano reso il suolo così ricco che si diceva che anche l’ombra di un seme potesse metter radici e fruttificare. C’era vita nei campi, come ce n’era nelle città. Ma quella vita non faceva parte del canto della terra. Era solo rumore, un fruscio continuo, mentre il verde della foresta, la vita dell’uomo rosso, dell’animale, della pianta, del suolo, che una volta convivevano in perfetta armonia, ora sembravano sopraffatti… E quel canto giungeva sommesso, intermittente, triste. Alvin lo sentiva spegnersi, e ne era rattristato.

Perché quel ridicolo ometto, quel rabdomante pieno di presunzione se l’era presa tanto? Alvin non riusciva a capirlo. Eppure non l’aveva aggredito, non si era messo a discutere, perché Hank Dowser non aveva quasi fatto in tempo ad arrivare che Alvin aveva già visto il Distruttore offuscargli i margini del campo visivo, come se il rabdomante se lo fosse portato dietro.

Alvin aveva visto il Distruttore per la prima volta nei suoi incubi di bambino, simile a un immenso nulla che gli rotolava addosso invisibilmente, cercando di schiacciarlo, di penetrargli dentro, di stritolarlo. Il vecchio Scambiastorie aveva aiutato Alvin a trovare un nome per il nemico invisibile. Il Distruttore, il cui unico scopo era distruggere l’universo, ridurlo in frantumi sempre più piccoli finché tutto non fosse diventato piatto, freddo, liscio e morto.

Non appena gli ebbe trovato un nome e si fu fatto una vaga idea dei suoi tremendi poteri, Alvin aveva incominciato a vedere il Distruttore anche da sveglio e alla luce del giorno. Non proprio direttamente, si capisce. Se uno prova a guardare il Distruttore, il più delle volte non riesce a vederlo. Il Distruttore infatti si rende invisibile dietro lo schermo della vita, della crescita e di tutto ciò che al mondo si costruisce. Ma all’estremo margine del campo visivo, come in agguato, era lì che Alvin lo scorgeva, era lì che lo attendeva quella vecchia, subdola serpe.

Ancora bambino, Alvin aveva scoperto un sistema perché il Distruttore si allontanasse da lui e almeno per un po’ lo lasciasse in pace. Non doveva far altro che usare le mani per creare qualcosa. Bastava un oggetto semplicissimo, come un cestino d’erba intrecciata, e il Distruttore si faceva indietro. Perciò quando il Distruttore era tornato a far sentire la sua presenza intorno alla fucina del fabbro, non molto tempo dopo l’arrivo di Alvin, questi non s’era impressionato granché. Nella fucina c’erano innumerevoli occasioni per costruire qualcosa. Oltre a ciò essa era il regno del fuoco… del fuoco e del ferro, la più dura delle terre. Sin dall’infanzia Alvin sapeva che il Distruttore aveva una particolare passione per l’acqua. L’acqua era la sua fedele servitrice; era l’acqua a svolgere la maggior parte della sua opera, demolendo e distruggendo. Perciò non c’era da stupirsi che, con l’arrivo di un uomo votato al servizio dell’acqua come Hank Dowser, il Distruttore si fosse ringalluzzito, tornando alla carica.

E adesso, sebbene Hank Dowser se ne fosse andato portando con sé la sua rabbia e i suoi pregiudizi, il Distruttore era sempre lì, acquattato nel campo e tra i cespugli, in agguato tra le lunghe ombre della sera.

Alvin si concentrò sul ritmo del lavoro. Affondare la vanga nel terreno, dare un colpo in avanti per staccare la zolla, sollevare la zolla fino all’imboccatura del pozzo, gettarla da una parte. Mantenere un andamento regolare, dare al mucchio di terra una forma compatta, sagomare i lati della buca. Per i primi tre piedi mantenere la forma quadrata, in modo da lasciare il posto per le fondamenta del parapetto in muratura. Poi dare alla buca una forma circolare e leggermente inclinata verso l’interno, per accogliere la camicia in pietra del pozzo finito. Anche se sai bene che da questo pozzo nessuno mai attingerà acqua, pensò Alvin, lavora con cura, scava come se fossi convinto che sarà un’opera duratura. Costruisci a regola d’arte, avvicinati per quanto puoi alla perfezione, e questo basterà per tenere a bada quel subdolo spione.

E allora perché Alvin non si sentiva affatto rassicurato?

Neanche avesse avuto in tasca un orologio, Alvin capì che si stava facendo sera quando vide arrivare Arthur Stuart che evidentemente aveva già cenato: infatti il piccolo aveva la faccia pulita e stava succhiando una caramella. Come al solito, Arthur non disse una parola. Alvin si era ormai abituato alla sua presenza. Fin da quando aveva imparato a camminare, quel bambino era diventato l’ombra in miniatura di Alvin. Ogni giorno, a meno che non piovesse, andava a trovarlo alla fucina. Non era molto loquace, e quando parlava non era facile capire quello che diceva; piccolo com’era, aveva ancora difficoltà con le «erre» e le «esse». Ma non aveva importanza. Arthur non chiedeva mai nulla e non combinava disastri, e Alvin non faceva quasi più caso alla sua presenza.

Impegnato a scavare, con le mosche della sera che gli ronzavano sul viso, Alvin poteva usare il suo cervello solo per pensare. Si trovava a Hatrack da tre anni, e in tutto quel tempo non si era avvicinato di un pollice a capire quale potesse essere il vero scopo del suo dono. Non vi ricorreva mai, a parte quando ferrava i cavalli, e in quest’ultimo caso lo faceva soltanto perché non sopportava di veder soffrire un animale, mentre per lui era così facile eseguire la ferratura a regola d’arte. Si trattava di una buona cosa, ma come creazione non era un gran che, se paragonata alla rovina della terra che lo circondava.