Alvin sapeva bene che il principale strumento del Distruttore in quella terra di foreste era l’uomo bianco. Ancor più dell’acqua, egli riusciva a demolire tutto quello che incontrava. Ogni albero che veniva abbattuto, ogni tasso, procione, cervo o castoro che veniva ucciso senza consenso, ogni creatura che perdeva la vita, contribuiva alla distruzione della terra. Una volta i Rossi mantenevano tutto in equilibrio, ma ora se n’erano andati: erano morti, o emigrati a ovest del Mizzipy, oppure, come gli Irrakwa e i Cherriky, sotto la pelle si erano trasformati in Bianchi, si erano rimboccati le maniche e ora lavoravano sodo per distruggere la terra ancora più in fretta dei Bianchi. Ormai non restava più nessuno che cercasse di conservare le cose nella loro integrità.
Qualche volta Alvin pensava di essere rimasto il solo a odiare il Distruttore e a cercare di combatterlo attraverso atti di creazione. E non sapeva come fare, non aveva la minima idea di quale doveva essere il passo successivo. L’unica persona che avrebbe potuto insegnargli a essere un vero Creatore era la fiaccola che l’aveva toccato quando egli aveva visto la luce, ma se n’era andata, era fuggita lo stesso giorno del suo arrivo. Non poteva essere un caso. Evidentemente non aveva voluto insegnargli nulla. Alvin era consapevole di avere un destino, ma nessuno voleva aiutarlo a trovare la strada.
Sono pronto, pensò Alvin. Ho i poteri necessari, purché capisca in che modo usarli, e sento in me il desiderio di seguire la voce del destino. Ma qualcuno deve pur aiutarmi.
Non sarebbe stato il fabbro, questo era sicuro. Quel vecchio zoticone approfittatore… Alvin sapeva che Makepeace Smith cercava d’insegnargli il meno possibile. Probabilmente non si rendeva nemmeno conto di tutto quello che Alvin era riuscito a imparare osservandolo senza dare nell’occhio. Il vecchio Makepeace non gli avrebbe mai permesso di andarsene, a meno di non esservi costretto. Eccomi qui, pensò amaramente Alvin: ho un destino, una vera, autentica Opera da compiere, proprio come Ettore, Ulisse o uno di quei tipi della Bibbia, e il mio unico maestro è un fabbro così tirchio che per farmi insegnare qualcosa da lui devo rubarglielo, anche se è mio di diritto.
Qualche volta Alvin si sentiva ribollire dalla rabbia e gli veniva una gran voglia di fare qualcosa di spettacolare, per far capire a Makepeace Smith che il suo apprendista non era un ragazzino stupido al punto da lasciarsi facilmente imbrogliare. Che cos’avrebbe fatto Makepeace Smith se avesse visto Alvin tagliare il ferro con le dita? Se l’avesse visto raddrizzare un chiodo piegato senza indebolirlo, o rassodare il ferro di cattiva qualità che altrimenti sarebbe andato in pezzi sotto il martello? E se l’avesse visto battere il ferro in lastre così sottili da poter essere attraversate dalla luce del sole, eppure così resistenti che nessuno sarebbe riuscito a spezzarle?
Erano solo sciocche fantasie, e Alvin lo sapeva. La prima volta Makepeace Smith sarebbe rimasto a bocca aperta, magari gli sarebbe anche preso un mezzo accidente, ma nel giro di dieci minuti avrebbe escogitato qualche espediente per ricavarne un profitto, e Alvin avrebbe avuto ancor meno possibilità di riacquistare la libertà prima del tempo stabilito. E la sua fama si sarebbe sparsa dappertutto, sissignore, per cui quando avrebbe avuto diciannove anni e Makepeace Smith sarebbe stato costretto a lasciarlo andare, il nome di Alvin sarebbe stato fin troppo conosciuto. La gente l’avrebbe assillato in continuazione chiedendogli di curare malattie, trovare l’acqua, riparare attrezzi o tagliare pietre, tutte cose che avevano ben poco a che fare con ciò che lo attendeva. Se avessero cominciato a portargli scrofolosi e zoppi da curare, dove avrebbe scovato il tempo di essere qualcosa di diverso da un semplice medico? Avrebbe avuto tutto il tempo di fare il guaritore al termine della via che lo avrebbe portato a diventare un Creatore.
Solo una settimana prima del massacro del Tippy-Canoe, Lolla-Wossiky, il Profeta, gli aveva mostrato una visione della Città di Cristallo. Alvin sapeva che un giorno sarebbe toccato a lui costruire quelle torri di ghiaccio e di luce. Tale era il suo destino, non quello di un campagnolo dai cento mestieri. Finché gli toccava restare al servizio di Makepeace Smith, doveva tenere segreto il suo vero dono.
Ecco perché non era ancora scappato, anche se ormai, grande com’era, nessuno l’avrebbe mai sospettato di essere un apprendista fuggitivo. A che gli sarebbe servita la libertà? Prima di tutto doveva diventare un Creatore. Altrimenti andarsene o restare non avrebbe fatto nessuna differenza.
Perciò non parlava mai di ciò che sapeva fare, e raramente faceva ricorso ai suoi poteri se non per ferrare i cavalli o avvertire l’agonia della terra intorno a sé. Ma, nel frattempo, nel fondo della sua mente, ricordava a se stesso chi era veramente. Un Creatore. Qualunque cosa ciò possa significare, io sono un Creatore, ed è per questo motivo che il Distruttore ha cercato di uccidermi prima ancora che io nascessi, e poi in cento incidenti e quasi-omicidi durante la mia infanzia a Vigor Church. È per questo che si aggira furtivamente qui intorno, e mi spia, in attesa di un’occasione per uccidermi, forse in attesa proprio di un momento come questo, mentre me ne sto tutto solo al buio, solamente io e la vanga e la rabbia di essere costretto a fare un lavoro che non servirà proprio a nulla.
Alvin ripensò a Hank Dowser. Che razza d’uomo può essere colui che non vuole ascoltare i consigli degli altri? La bacchetta si è piegata di scatto, è vero… In quel punto l’acqua potrebbe schizzar fuori dalla terra al primo colpo di vanga, aveva sostenuto il rabdomante. Ma il motivo per cui non è schizzata fuori è che proprio lì sotto, a non più di due braccia sotto terra, c’è uno strato di roccia viva. Per quale altro motivo qui crescerebbe un prato naturale? Gli alberi non possono affondare le radici perché l’acqua piovana scorre lungo la superficie della roccia, e le radici stesse non riescono ad attraversarla per giungere fino alla vena sottostante. Hank Dowser ha certamente trovato l’acqua, ma altrettanto certamente non è riuscito a trovare ciò che si trovava tra l’acqua e la superficie. Non è stata colpa di Hank se non l’ha vista, ma sicuramente è stata colpa sua non voler pensare che là sotto potesse esserci anche dell’altro.
Perciò Alvin continuò a scavare con tutta la cura di cui era capace e, in effetti, non appena ebbe tracciato con la vanga la parete circolare ecco che cling, clang, clung, la vanga urtò contro la roccia.
Udendo quel suono, Arthur Stuart si avvicinò di corsa al bordo della buca e guardò dentro. «Dong dong» esclamò. Poi batté le mani.
«Hai proprio ragione» disse Alvin. «Qui si può fare dong dong per l’intera ampiezza della buca. E per ora neanche lo dirò a Makepeace Smith, puoi scommetterci. Mi ha detto che non potevo mangiare né bere finché non gli avessi trovato l’acqua, perciò non ho la minima intenzione di andare là prima che faccia buio per implorare una scodella di minestra solo perché ho incontrato il sasso, nossignore.»
«Dong» fece il bambino.
«Ora ripulirò il fondo della buca fino all’ultimo granello di terra, in modo da mettere a nudo la roccia.»
Alvin tolse dalla buca tutta la terra che poté, raschiando col fianco della vanga la superficie gibbosa della roccia. Questa però era ancora marrone e terrosa, e Alvin non ne fu soddisfatto. Voleva che quel sasso diventasse di un bianco abbagliante. Nessuno avrebbe potuto vederlo tranne Arthur Stuart, che era soltanto un marmocchio. Così Alvin usò il suo dono come non aveva più fatto da quando aveva lasciato Vigor Church. Fece in modo che il terriccio scivolasse sulla superficie della roccia, scorresse via fino all’ultimo granello andando ad aderire contro le pareti di terra compatta.