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Alvin stavolta non poté fare a meno di ridere. «Che mi venga un colpo se non sei un perfetto pappagallo, Arthur Stuart.»

Il bambino alzò gli occhi verso Alvin e sulla faccia gli comparve l’ombra di un sorriso. Dalla casa si udì un rumore di piatti che andavano in frantumi. Arthur Stuart scoppiò a ridere e si mise a correre in tondo. «Ha rotto un piatto, ha rotto un piatto, ha rotto un piatto!» esclamò.

«Sei proprio un fenomeno!» disse Alvin. «Adesso dimmi, Arthur, le cose che hai appena detto in realtà non le capisci, vero? Voglio dire, stavi solo ripetendo quello che udivi, eh?»

«Gli ha rotto un piatto in testa?» Arthur adesso rideva a crepapelle, tanto da cadere all’indietro nell’erba. Alvin rise con lui, ma non riusciva a staccare gli occhi dal bambino. In lui c’è più di quel che appare a prima vista, pensò. Oppure è matto da legare.

Dalla direzione opposta si levò un’altra voce di donna, un richiamo a piena gola che si librò sull’aria umida del crepuscolo. «Arthur! Arthur Stuart

Arthur si tirò a sedere di colpo. «Mamma» disse.

«Proprio così, è la vecchia Peg Guester che ti chiama» annuì Alvin.

«A letto» fece Arthur.

«Fa’ solo attenzione che prima non ci scappi un bagno. Ti vedo un po’ sporco di terra.»

Arthur balzò in piedi e corse attraverso il prato, verso il sentiero che dal vecchio deposito conduceva alla locanda. Alvin seguì il bambino con lo sguardo mentre correva agitando le braccia come se volasse. Un uccello notturno, probabilmente un gufo, seguì il bambino attraverso il prato, volando rasente al suolo come per tenergli compagnia. Quando Arthur fu scomparso alla sua vista dietro l’angolo del deposito, Alvin tornò finalmente al suo lavoro.

Nel giro di pochi minuti il buio fu completo, seguito poco dopo dal profondo silenzio della notte. Perfino i cani giù in città tacevano. La luna non sarebbe spuntata prima di qualche ora. Alvin continuò a lavorare. Non aveva bisogno di vedere; poteva sentire come procedeva il lavoro, come si comportava la terra sotto i suoi piedi. Non era il modo di vedere dell’uomo rosso, la sua capacità di udire il verde canto della foresta. No, quello che Alvin usava era il suo dono, il dono che lo aiutava a scendere sempre più a fondo nella terra.

Sapeva che avrebbe incontrato la roccia a una profondità doppia. Ma quando la vanga cominciò a incontrare grossi pezzi di roccia, non si trattava di una superficie liscia come nel punto scelto da Hank Dowser. Le pietre erano friabili e si sgretolavano facilmente: ricorrendo al suo dono, Alvin non aveva che da far leva col manico della vanga perché le pietre si staccassero senza difficoltà e lui potesse gettarle fuori dalla buca come zolle di terra.

Una volta superato lo strato di roccia, tuttavia, il terreno cominciò a diventare fangoso. Se Alvin non fosse stato quello che era, avrebbe interrotto il lavoro e sarebbe tornato il mattino dopo con qualcun altro che l’aiutasse a svuotare la buca. Ma per Alvin era un gioco da ragazzi. Rese più compatto il terreno intorno alla parete della buca in modo che l’acqua filtrasse più lentamente. Adesso non lavorava più di vanga: cominciò a raccogliere con un secchio il terriccio fangoso, e non aveva neanche bisogno di un compagno che tirasse fuori il secchio con una corda, perché gli bastava dargli lo slancio e i suoi poteri facevano sì che ogni secchiata di fanghiglia restasse bella compatta atterrando giusto fuori della buca. Anziché secchi di fango, da quella buca sembravano volar fuori dei conigli.

In questo genere di cose Alvin era maestro, e in quella buca fece davvero miracoli. Sei venuto a dirmi che non potevo mangiare né bere finché il pozzo non era finito, convinto che prima o poi sarei venuto a mendicare un bicchier d’acqua, a implorare di lasciarmi andare a letto, pensò. Be’, non vedrai niente del genere. Avrai il tuo pozzo, con pareti così solide che la gente verrà ad attingerci l’acqua molto tempo dopo che la tua casa e la fucina saranno ridotte in polvere.

Però, mentre assaporava il dolce gusto della vittoria, Alvin vedeva che il Distruttore gli era più vicino di quanto non fosse avvenuto da anni. Ora guizzava e danzava, e non solo ai margini del suo campo visivo. Anche al buio lo vedeva davanti a sé, lo scorgeva ancor più chiaramente che alla luce del giorno, perché nel grigiore indistinto non c’era nulla che potesse indurlo a ritrarsi.

All’improvviso Alvin venne attanagliato dal terrore, proprio come negli incubi della sua infanzia, e per qualche tempo restò immobile in fondo alla buca, paralizzato dalla paura, mentre l’acqua filtrava lentamente dal basso, trasformando il terreno in viscida fanghiglia. Uno strato di fanghiglia profondo cento piedi, e Alvin vi stava affondando dentro, e anche le pareti del pozzo si stavano ammorbidendo, alla fine avrebbero ceduto e gli sarebbero crollate addosso seppellendolo, e lui sarebbe affogato cercando di respirare fango, lo sapeva, poteva sentirselo freddo e bagnato all’altezza delle cosce, dell’inguine; strinse i pugni e sentì il fango sgusciargli fra le dita, proprio come il nulla dei suoi incubi…

E poi tornò in sé, riprendendo il controllo delle proprie azioni. Certo, era immerso nel fango fino alla cintola, e qualsiasi altro ragazzo nella sua stessa situazione avrebbe cominciato a dibattersi, sprofondando sempre più nel tentativo di liberarsi fino a morire soffocato. Ma quello era Alvin, non un ragazzo qualunque: posto che non si lasciasse istupidire dalla paura come un bambino sorpreso da un brutto sogno, era dunque perfettamente in grado di cavarsela. Così fece indurire il fango sotto di sé di quel tanto che bastava a sostenere il suo peso, poi fece venire a galla la piattaforma di fango indurito finché non si ritrovò nuovamente con i piedi all’asciutto su una superficie di fango e ciottoli.

Facile come rompere il collo a un topo. Se questo era tutto ciò che il Distruttore riusciva a inventare, poteva anche tornarsene a casa. Alvin era in grado di batterlo, proprio com’era in grado di battere Makepeace Smith e Hank Dowser messi insieme. Continuò a scavare, a riempire secchi di fango, a sollevarli, a gettarli fuori, poi di nuovo a riempirli.

Ormai era quasi alla profondità giusta, sei piedi buoni sotto lo strato di roccia. Se in precedenza non avesse consolidato le pareti di terra del pozzo, si sarebbe già trovato sott’acqua. Alvin agguantò la corda provvista di nodi che aveva lasciato pendere nel pozzo e risalì la parete, tirandosi su a forza di braccia.

La luna era spuntata, ma la buca era così profonda che per molte ore ancora i suoi raggi non ne avrebbero illuminato l’interno. Non aveva importanza. Alvin scaricò nel pozzo una carriola piena di quei sassi che ne aveva estratto solo un’ora prima. Poi si calò giù per la seconda volta.

Fin da piccolo aveva usato il suo dono per lavorare la pietra, e quella sera superò se stesso. Modellò a mani nude la roccia come se fosse stata argilla, facendone piccoli blocchi quadrati che dispose lungo la parete del pozzo partendo dal fondo, incastrandoli uno contro l’altro in modo che la pressione della terra e dell’acqua non li facesse crollare. L’acqua sarebbe penetrata facilmente nelle fessure tra una pietra e l’altra, che invece avrebbero trattenuto il terreno. L’acqua del pozzo sarebbe stata pulita fin quasi dall’inizio.

Le pietre dello scavo naturalmente non furono sufficienti; Alvin fece tre viaggi fino al ruscello per riempire la carriola di pietre levigate dall’acqua. Anche se stava usando i suoi poteri, la notte era ormai avanzata e la stanchezza si faceva sentire. Ma egli si rifiutò di prestarle attenzione. Non aveva forse imparato dai Rossi a correre anche quando la stanchezza avrebbe dovuto farlo crollare già da un pezzo? Un ragazzo che aveva seguito Ta-Kumsaw nella sua corsa da Detroit alla Collina Ottagonale, un ragazzo che era stato capace di una simile impresa non poteva darsi per vinto dopo una sera trascorsa a scavare, non poteva cedere alla sete o al dolore che provava alla schiena, alle cosce e alle spalle, al fuoco che gli bruciava i gomiti e le ginocchia.