«Ho fatto come mi aveva detto.»
«Ne sono sicura, proprio come sono sicura che il punto in cui ti aveva detto di scavare era laggiù, accanto alla fucina, dove è venuta fuori la pietra viva, giusto?» Gertie ridacchiò allegramente. «Così impara, quel vecchio sbruffone. Beve senza fiatare tutto quel che gli racconta il rabdomante, ma il vero dono della rabdomanzia ce l’ha il suo apprendista, non quel vecchio imbroglione…»
Per la prima volta, Alvin si rese conto che la buca scavata con tanta rabbia era come un cartello che proclamava ai quattro venti che lui non aveva solo un dono per la ferratura. «Vi prego, signora» mormorò.
«Vi prego di che cosa?»
«Il mio dono non è la rabdomanzia, signora, e se voi cominciate a dirlo in giro, io non avrò più pace.»
Gertie lo fissò freddamente. «Se non hai il dono della rabdomanzia, ragazzo, spiegami come mai dal pozzo che hai scavato si attinge acqua limpida e fresca.»
Alvin aveva già calcolato la bugia. «La bacchetta del rabdomante si era piegata anche in questo punto, io me n’ero accorto, e così quando, scavando il primo pozzo, ho trovato la pietra, mi è sembrato il caso di scavare anche qui.»
Gertie era sospettosa per natura. «Sei sicuro che diresti la stessa cosa anche se Gesù fosse qui per giudicare la sorte della tua anima a seconda di quello che stai dicendo?»
«Signora, penso che se Gesù fosse qui non starei certo a pensare ai pozzi, ma chiederei perdono per i miei peccati.»
Gertie rise di nuovo, dandogli una leggera pacca sulla spalla. «La tua storia non mi dispiace. Te ne stavi lì a guardare il vecchio Hank Dowser che cercava l’acqua, e hai visto la bacchetta che si piegava. Sì, non è male davvero. Questa è la storia che racconterò a tutti, fidati di me.»
«Grazie, signora.»
«Ecco. Bevi. Ti sei meritato il primo sorso dal primo secchio d’acqua pura attinta da questo pozzo.»
Alvin sapeva che, secondo l’usanza, il primo sorso sarebbe toccato al padrone del pozzo. Ma Gertie l’aveva offerto a lui, e Alvin aveva tanta sete che non sarebbe riuscito a sputare due centesimi di saliva nemmeno se gliel’avessero pagata cinque dollari l’oncia. Così si portò il secchio alle labbra e bevve, lasciando che l’acqua gli grondasse sulla camicia.
«Scommetto che hai anche fame» ridacchiò lei.
«Più stanchezza che fame, penso» disse Alvin.
«Allora vieni a casa e fatti una dormita.»
Alvin sapeva che avrebbe fatto bene a seguire quel consiglio, ma al tempo stesso continuava a vedere il Distruttore aggirarsi nei paraggi, e aveva paura di addormentarsi di nuovo. «Vi ringrazio di cuore, signora, ma preferirei starmene un po’ da solo.»
«Fa’ come vuoi» disse lei, e rientrò in casa.
La brezza del mattino asciugava l’acqua che Alvin si era versato sulla camicia, facendolo rabbrividire. Che l’assalto del Distruttore fosse stato solo un sogno? Era quasi sicuro di no. In quei momenti era stato sveglio, ed era successo tutto veramente, e se Gertie Smith non fosse arrivata ad attingere l’acqua dal pozzo, Alvin sarebbe stato perduto. Il Distruttore non si nascondeva più. Non si aggirava furtivamente alle sue spalle o appena fuori della sua portata. Ovunque Alvin posasse lo sguardo lo vedeva tremolare nella luce grigiastra dell’alba.
Per qualche motivo, il Distruttore aveva scelto proprio quel mattino per affrontarlo a viso aperto. Ma Alvin non aveva la minima idea di come difendersi. Se scavare un pozzo e rifinirlo con tanta cura non era una creazione sufficiente a scacciare il suo nemico, allora era rimasto a corto di espedienti. Il Distruttore non era come gli uomini con cui Alvin faceva la lotta, giù in città. Il Distruttore non aveva niente su cui egli potesse far presa.
Una cosa era certa. Alvin non avrebbe più chiuso occhio finché non fosse riuscito in qualche modo a mettere a terra il Distruttore e a rotolarsi con lui nella polvere.
Sono nato per essere il tuo padrone, disse Alvin rivolgendosi al Distruttore. Perciò dimmi, Distruttore, come posso distruggerti se sei solo Distruzione? Chi m’insegnerà a vincere questa battaglia, se puoi sorprendermi nel sonno in qualsiasi momento, e io non ho la minima idea di come affrontarti?
Mentre, dentro di sé, pronunciava queste parole, Alvin era giunto al limite della foresta. Il Distruttore continuava a indietreggiare, mantenendosi sempre fuori portata. Senza bisogno di guardare, Alvin sapeva di averlo anche alle spalle, e di esserne quindi circondato.
Ora mi trovo nel folto della foresta vergine, dove dovrei sentirmi più sicuro, ma il canto verde non si sente più. Tutt’intorno a me c’è il mio nemico di sempre, e io non so assolutamente che cosa fare.
Il Distruttore invece sapeva bene che cosa fare. Non aveva bisogno di arrovellarsi in cerca di un piano, e Alvin dovette accorgersene anche troppo in fretta.
Infatti, mentre se ne stava in piedi nella brezza fresca di quel mattino estivo, l’aria all’improvviso si fece gelida, e che mi prenda un colpo se non cominciò a nevicare. I fiocchi di neve cadevano fitti sulle foglie degli alberi e sullo spesso tappeto d’erba. E non erano i fiocchi bagnati e pesanti della neve primaverile, bensì i minuscoli cristalli ghiacciati di una bufera invernale che in un batter d’occhio ricoprì tutto di una gelida coltre. Alvin cominciò a battere i denti.
«Non puoi farmi questo» disse.
Ma ora aveva gli occhi bene aperti, di questo era sicuro. Non era un sogno del dormiveglia. Quella era neve vera, che ormai formava uno strato così spesso e pesante che i rami degli alberi ricoperti dal fogliame estivo cominciavano a spezzarsi e le foglie si staccavano, cadendo a terra con un tintinnio di ghiaccio spezzato. E se non avesse trovato una via d’uscita lo stesso Alvin sarebbe ben presto morto assiderato.
Cercò di tornare sui suoi passi, ma la neve cadeva così fitta che Alvin non riusciva a vedere più in là di due o tre passi, e nemmeno poteva orientarsi col suo sesto senso perché il Distruttore aveva annientato il verde canto della foresta vivente. Allora si mise a correre. Solo che non correva con passo sicuro come gli aveva insegnato Ta-Kumsaw; correva goffamente e rumorosamente come uno stupido Bianco e, proprio come sarebbe accaduto alla maggior parte dei Bianchi, scivolò su una pietra coperta di ghiaccio e rovinò a faccia in avanti in un cumulo di neve.
La neve gli entrò in bocca, nel naso e nelle orecchie, gli s’insinuò fra le dita, proprio come la fanghiglia della notte prima, proprio come il Distruttore nel sogno, e Alvin si sentì soffocare e sputò e gridò…
«So che è una bugia!»
La sua voce restò soffocata dalla parete di neve.
«È estate!» urlò.
La mascella gli doleva dal freddo e Alvin capì che parlare ancora sarebbe stata una sofferenza troppo grande, eppure con le labbra intorpidite gridò ancora: «Ti costringerò a smettere!»
E in quel momento si rese conto che dal Distruttore non avrebbe mai ottenuto nulla; non avrebbe mai potuto costringerlo a fare o a essere qualsiasi cosa, perché il Distruttore era solo la negazione dell’essere e del fare. Non era al Distruttore che doveva rivolgersi, ma a tutte le cose viventi che lo circondavano, agli alberi, all’erba, alla terra, all’aria stessa. Doveva ricreare il canto verde della foresta.
Si aggrappò a quell’idea con tutte le forze e la usò, parlò di nuovo, con la voce ormai ridotta a un sussurro, ma levò la sua invocazione, e stavolta senza rabbia.
«Estate» sussurrò.
«Aria tiepida!» disse.
«Foglie verdi!» gridò. «Vento caldo del sudovest! Nubi temporalesche del pomeriggio, foschia mattutina, raggi solari che la riscaldate, bruciando la nebbia!»
Possibile fosse cambiato qualcosa, anche di pochissimo? Che la neve adesso cadesse un po’ meno fitta? Che i cumuli di neve avessero cominciato a sciogliersi, e lo strato di ghiaccio sui rami degli alberi avesse cominciato ad allentare la sua presa?