Выбрать главу

«È un caldo mattino d’estate e tutto è asciutto!» esclamò. «Può darsi che più tardi cada la pioggia, come un dono portato dai Re Magi, venuti da lontano, ma per ora i raggi del sole cadono sulle foglie, destandovi, e voi mettete altre foglie. È così! È così!»

La sua voce adesso era piena di gioia perché la nevicata si era ridotta a una pioggerella, la neve sul terreno si era sciolta quasi completamente, lasciando solo qualche chiazza qua e là, e sui rami le foglie tornavano a germogliare come un reparto della milizia a passo di parata.

E nel silenzio che seguì al suo ultimo grido, udì un canto d’uccello.

Un canto che Alvin non aveva mai udito prima d’allora. Mai gli era successo di ascoltare quella dolce melodia che cambiava a ogni fischio e non si ripeteva mai. Era un canto che s’intrecciava su se stesso, nel quale non si poteva scorgere alcun disegno preciso e che quindi nessuno avrebbe potuto ripetere; ma non lo si sarebbe nemmeno potuto torcere, filare e scomporre nelle sue diverse parti. Era un tutt’uno, un’unica Creazione, e Alvin capì che se solo fosse riuscito a trovare l’uccello con quel canto nell’ugola sarebbe stato salvo. La sua vittoria sarebbe stata completa.

Si mise a correre, e ora il verde canto della foresta era in lui, e i suoi piedi trovavano il punto giusto in cui posarsi senza bisogno di guardare. Seguì il canto finché non giunse alla radura da cui esso proveniva.

Posato su un vecchio tronco all’ombra del quale ancora resisteva una chiazza di neve c’era un pettirosso che cantava a gola spiegata. E seduto davanti al tronco, col naso che quasi sfiorava il becco dell’uccello… Arthur Stuart.

Alvin avanzò con estrema cautela, descrivendo un ampio arco prima di avvicinarsi al bambino e all’uccello. Arthur Stuart non parve fare il minimo caso alla sua presenza, perché non distolse lo sguardo dal pettirosso nemmeno per un istante. Il sole abbagliava entrambi, ma nessuno dei due batteva ciglio. Anche Alvin rimase in silenzio. Proprio come Arthur Stuart, era completamente affascinato dal canto del pettirosso.

Non aveva niente di diverso da tutti gli altri pettirossi, dai mille uccelli canori dalla pettorina scarlatta che Alvin aveva visto fin da quando era piccolo. Però dalla sua gola proveniva una melodia che nessun altro uccello aveva mai cantato. Quello non era un pettirosso. Né era il pettirosso. Nessun uccello al mondo possedeva un dono del quale tutti i suoi simili fossero privi. Era semplicemente Pettirosso, l’uccello scelto perché in quel momento parlasse con la voce di tutti gli uccelli, perché cantasse il canto di tutti gli uccelli, in modo che quel ragazzo lo potesse udire.

Alvin s’inginocchiò sull’erba verde e tenera a non più di un passo di distanza da Pettirosso, e ascoltò il suo canto. Da ciò che una volta gli aveva narrato Lolla-Wossiky, sapeva che il canto di Pettirosso è intessuto di tutte le storie dell’uomo rosso, di tutto ciò che di memorabile l’uomo rosso aveva fatto. Alvin in qualche modo sperò di poter comprendere quell’antica leggenda, o per lo meno di udire Pettirosso narrare qualche fatto cui anch’egli aveva preso parte. Il Profeta Lolla-Wossiky che camminava sulle acque; il fiume Tippy-Canoe intorbidito dal sangue dei Rossi; Ta-Kumsaw ancora in piedi con una dozzina di palle di moschetto in corpo, che continuava a gridare ai suoi uomini di resistere, di battersi, di cacciare i ladri bianchi dalla terra dei Rossi.

Ma per quanto si sforzasse di ascoltare, il senso di quella canzone continuava a sfuggirgli. Alvin poteva correre come un Rosso e udire la verde musica della foresta, ma il canto di Pettirosso non era destinato a lui. Come dice il proverbio: «Non c’è ragazza che sia corteggiata da tutti, non c’è ragazzo che possieda tutti i doni». Alvin poteva già fare molto, e molto gli restava da imparare, ma molto di più sarebbe sempre restato oltre la sua portata, e il canto di Pettirosso faceva parte di queste cose inattingibili.

Eppure Alvin era assolutamente sicuro che Pettirosso non si trovava lì per caso. Se era saltato fuori proprio al termine del suo primo confronto diretto col Distruttore, doveva avere uno scopo preciso. E quel canto gli avrebbe dato una risposta.

Alvin stava per parlare, era sul punto di formulare la domanda che gli bruciava dentro fin da quando era venuto a conoscenza del suo destino. Ma non fu la sua voce a interrompere il canto di Pettirosso, bensì quella di Arthur Stuart.

«Non conosco i giorni che verranno» disse il piccolo mulatto. La sua voce era simile a una musica, e la sua pronuncia era chiara come mai era stata prima. «Conosco soltanto i giorni passati.»

Un istante dopo Alvin capì. Le parole di Arthur erano una risposta alla sua domanda. Diventerò mai un Creatore, come ha predetto la piccola fiaccola? Questo era ciò che Alvin avrebbe voluto sapere, e Arthur Stuart gli aveva risposto.

Ma quella risposta non veniva da lui, era evidente. Il bambino non era in grado di capire ciò che stava dicendo più di quanto non potesse capire il litigio della sera prima tra Makepeace e Gertie, da lui imitato con tanta fedeltà. Arthur gli stava dando la risposta di Pettirosso. Stava traducendo il canto dell’uccello in parole comprensibili alle orecchie di Alvin.

Allora Alvin capì di aver fatto la domanda sbagliata. Per sapere se era destinato a diventare un Creatore non aveva bisogno di Pettirosso… Lo sapeva già da anni, e continuava a esserne consapevole nonostante tutti i suoi dubbi. La vera domanda non era se doveva diventare un Creatore, ma come diventarlo.

Dimmi come.

Il canto di Pettirosso si mutò in una cantilena semplice e melodiosa, più vicina a un normale canto d’uccello e ispirata a qualcosa che non era più la storia millenaria dell’uomo rosso. Pur continuando a non coglierne il senso preciso, Alvin capì subito di che cosa si trattava. Era il canto della Creazione. La stessa melodia si ripeté più e più volte: erano solo poche note, ma di una tale abbacinante verità che Alvin lo vide davanti a sé, lo percepì dalle labbra al ventre, ne avvertì il gusto e l’odore. Quello era il canto della Creazione, ed era il suo canto: lo capì dal gusto dolce che gli restava sulla lingua.

E quando il canto giunse al suo culmine, Arthur Stuart parlò di nuovo con una voce così limpida e musicale da non potersi più dire umana. «Il Creatore è colui che è parte di ciò che crea» disse il piccolo mulatto.

Alvin ripose quelle parole nel suo cuore, sebbene in quel momento non riuscisse a comprenderle. Sapeva però che un giorno le avrebbe capite, e quel giorno avrebbe acquistato i poteri degli antichi Creatori che avevano costruito la Città di Cristallo. Avrebbe capito, avrebbe usato i suoi poteri, avrebbe trovato la Città di Cristallo e l’avrebbe ricostruita.

Il Creatore è colui che è parte di ciò che crea.

Pettirosso tacque. Restò immobile, con la testa inclinata; e poi non fu più Pettirosso, ma un qualsiasi uccellino dalla pettorina scarlatta. Infine volò via.

Arthur Stuart lo seguì con lo sguardo finché non scomparve. Poi gridò con la sua vera voce infantile: «Vola! Vola uccello!» Alvin s’inginocchiò accanto al bambino, stremato dalle fatiche della notte, dal terrore provato durante l’alba grigiastra, dal canto d’uccello levatosi in quella luminosa giornata.

«Ho volato» disse Arthur Stuart. Per la prima volta sembrò rendersi conto della presenza di Alvin e infatti si voltò nella sua direzione.

«Davvero?» mormorò Alvin, riluttante a distruggere il sogno del piccolo con la spiegazione che gli esseri umani non volano.

«Mi ha portato il grande uccello nero» disse Arthur. «Ho volato tanto.» Poi Arthur tese le braccia e strinse tra le manine le guance di Alvin. «Creatore!» esclamò. Poi rise di gioia.