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Dunque Arthur non era solo capace di ripetere. Aveva veramente compreso il canto di Pettirosso, almeno in parte… Comunque a sufficienza per dare un nome al destino di Alvin.

«Non devi dirlo a nessuno» gli sussurrò Alvin. «Io non dirò a nessuno che sai parlare con gli uccelli, e tu non racconterai a nessuno che sono un Creatore. Promettimelo.»

Arthur assunse un’espressione seria. «Non parlo con gli uccelli, io» affermò. «Sono loro che parlano con me.» E poi: «Ho volato, davvero».

«Ti credo» disse Alvin.

«E io credo a te» ribatté Arthur. Poi rise di nuovo.

Alvin si tirò in piedi, subito imitato da Arthur. Poi prese il piccolo per mano. «Torniamo a casa» disse.

Portò Arthur alla locanda, dove la vecchia Peg Guester diede una bella lavata di capo al piccolo mulatto per essere sparito a quell’ora del mattino solo per disturbare la gente. Ma il suo fu un rimprovero pieno d’amore, e Arthur sorrise estaticamente al suono della voce di quella donna che lui chiamava mamma. Quando la porta si richiuse alle spalle di Arthur Stuart, Alvin si disse: un giorno racconterò a quel ragazzo ciò che ha fatto per me. Un giorno gli spiegherò che cosa voleva dire tutto questo.

Per tornare a casa, Alvin prese il sentiero che portava al deposito sulla sorgente, e di qui si diresse verso la fucina, dove Makepeace sarebbe stato sicuramente fuori di sé dalla stizza perché il suo apprendista non si era presentato alla solita ora, anche se per scavare il pozzo certamente aveva trascorso la notte in bianco.

Il pozzo. Alvin si ritrovò in piedi davanti alla buca che aveva scavato come un monumento a Hank Dowser, con la pietra bianca che scintillava al sole, abbagliante e crudele come una risata di disprezzo.

E in quell’istante comprese come mai il Distruttore fosse andato da lui proprio quella notte. Non per via del pozzo che aveva scavato, quello vero. Non perché avesse usato il suo dono per trattenere l’acqua e avesse ammorbidito la pietra per modellarla a suo piacimento. Il Distruttore era giunto per l’unico motivo che aveva spinto Alvin a scavare quella buca fino allo strato di roccia: perché Hank Dowser ci facesse la figura dell’idiota.

L’aveva fatto per punire il rabdomante? Sissignore, per farne lo zimbello di chiunque vedesse il pozzo dal fondo di pietra scavato nel punto da lui indicato. Quel pozzo avrebbe segnato la sua fine, avrebbe rovinato la sua reputazione di rabdomante, e per di più ingiustamente, perché Hank era un bravo rabdomante, e si era soltanto fatto ingannare dalla conformazione del terreno. Hank aveva commesso un errore in buona fede, e Alvin si era messo in mente di punirlo come se fosse stato un imbroglione, cosa che sicuramente non era.

Stanco com’era, stremato dal lavoro e dallo scontro con il Distruttore, Alvin non perse un istante. Andò a prendere la vanga dove l’aveva lasciata, cioè accanto al pozzo funzionante, poi si sfilò la camicia e si rimise al lavoro. Quando aveva scavato quel finto pozzo l’aveva fatto per un fine malvagio: voleva distruggere un uomo onesto soltanto per vendicare il proprio orgoglio ferito. Riempirlo, invece, era un lavoro da Creatore. E poiché era giorno pieno, Alvin non poteva nemmeno servirsi del suo dono… Dovette quindi darci dentro senza aiuto, finché non si sentì sul punto di morire di stanchezza.

Era mezzogiorno, e lui non aveva cenato né fatto colazione, ma il pozzo era stato riempito e ogni zolla rimessa al suo posto in modo che l’erba potesse crescere come prima. Insomma, se non si andava a guardare proprio da vicino, si faceva fatica a credere che in quel punto era stata scavata una buca. Be’, in effetti qui Alvin aveva un po’ fatto ricorso al suo dono, per intrecciare le radici dell’erba fra loro e farle affondare nel terreno, in modo che non restassero chiazze rivelatrici.

Mentre lavorava, tuttavia, ciò che gli bruciava più del sole sulla schiena o della fame alla bocca dello stomaco era la vergogna. La sera prima era stato così accecato dalla rabbia e dalla voglia di far sfigurare Hank Dowser, che non gli era nemmeno balenata l’idea di fare l’unica cosa giusta, cioè usare il suo dono per forare lo strato di roccia nel punto esatto che gli era stato indicato da Hank. Tranne Alvin, nessuno avrebbe mai saputo che in quel punto c’era qualcosa che non andava. Così avrebbe fatto un vero cristiano, una persona capace di autentica carità. Quando qualcuno ti schiaffeggia, tu porgigli l’altra guancia, questo aveva detto Gesù, e Alvin non gli aveva prestato il minimo ascolto. Tutto per colpa del suo maledetto orgoglio.

Ecco che cos’è stato a richiamare il Distruttore, pensò Alvin. Avrei potuto usare il mio dono per costruire, e invece l’ho usato per demolire. Be’, non accadrà più, mai più, mai più. Lo giurò a se stesso tre volte, e anche se si trattava di una promessa silenziosa e nessuno ne sarebbe mai venuto a conoscenza, l’avrebbe mantenuta con fermezza ancora maggiore che se quel giuramento l’avesse pronunciato di fronte a un giudice o addirittura a un pastore.

Ma ormai era troppo tardi. Se ci avesse pensato prima che Gertie vedesse il falso pozzo o attingesse l’acqua a quello vero, avrebbe potuto riempire il secondo pozzo e terminare il primo. Ma ora che lei aveva visto la pietra, se lui l’avesse forata il suo segreto sarebbe diventato di pubblico dominio. E una volta che si è bevuta l’acqua di un pozzo appena scavato, non si può interrarlo, a meno che non si secchi da solo. Riempire un pozzo ancora vivo significa essere perseguitati per tutta la vita dalla siccità e dal colera.

Alvin aveva rimediato il rimediabile. Puoi pentirti ed essere perdonato, ma non puoi richiamare tutti i futuri cancellati dalle tue cattive decisioni. Per capirlo non c’era bisogno di essere filosofi.

Dalla fucina non si udivano colpi di martello, e dal comignolo non usciva fumo. Makepeace doveva essere stato trattenuto da qualche faccenda. Alvin rimise a posto la vanga e s’incamminò verso casa.

A metà strada Alvin si trovò davanti al nuovo pozzo, e a Makepeace Smith seduto sul basso muricciolo di pietre che Alvin aveva costruito come futura base del parapetto in muratura.

«Buongiorno, Alvin» lo salutò il suo padrone.

«Buongiorno, signore» rispose Alvin.

«Ho appena calato sino in fondo il secchio di rame. Devi aver scavato come un demonio per arrivare fin laggiù.»

«Non volevo correre il rischio che si seccasse.»

«E l’hai già foderato di pietre» continuò il fabbro. «Uno splendido lavoro, direi.»

«Ho lavorato duro e in fretta.»

«Hai anche scavato nel punto giusto, vedo.»

Alvin trasse un profondo respiro. «Per come la vedo io, signore, ho scavato esattamente nel punto in cui il rabdomante aveva detto di scavare.»

«Ho visto un’altra buca, un po’ più in alto» disse Makepeace Smith. «Il fondo era un lastrone di pietra spesso e duro come gli zoccoli del diavolo. Forse non vuoi far sapere in giro che la prima buca l’avevi scavata lassù?»

«Quella buca l’ho riempita» spiegò Alvin. «E vorrei non averla mai scavata. Non voglio che nessuno cominci a raccontare storie su Hank Dowser. In quel punto l’acqua c’era, e nessun rabdomante al mondo avrebbe potuto immaginare che sopra c’era la roccia.»

«Tranne te» osservò Makepeace.

«Io non sono un rabdomante, signore» disse Alvin. E poi fece nuovamente ricorso alla menzogna. «Solo, ho visto che la bacchetta si era piegata anche in questo punto.»

Makepeace scosse la testa, mentre un sorriso gli scopriva lentamente i denti. «Questa storia l’ho già sentita da mia moglie, e sono quasi morto dal ridere. Ieri ho dovuto schiaffeggiarti perché sostenevi che Hank si sbagliava. Adesso vieni a dirmi che secondo te è lui che deve prendersene il merito?»

«Hank Dowser è un vero rabdomante» ribadì Alvin. «Io no. Perciò penso che, siccome il rabdomante è lui, è giusto che se ne prenda il merito.»

Makepeace Smith sollevò il secchio di rame, se lo portò alle labbra e ne bevve qualche sorsata. Poi gettò indietro la testa versandosi sul viso l’acqua rimanente, e rise forte. «Giuro che è l’acqua più buona che abbia mai bevuto in vita mia.»