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Non era la stessa cosa che promettere di non contraddirlo, lasciando quindi che Hank Dowser pensasse che quel pozzo era il suo, ma Alvin sapeva che dal suo padrone non avrebbe potuto cavare molto di più. «Se voi siete d’accordo» disse «avrei un certo appetito.»

«Sì, va’ a mangiare, te lo sei guadagnato.»

Alvin s’incamminò passandogli davanti. L’odore dell’acqua giunse alle sue narici.

Makepeace parlò di nuovo alle sue spalle. «Gertie mi ha detto che il primo sorso d’acqua l’hai bevuto tu.»

Alvin si voltò, temendo il peggio. «Sì, signore, ma non prima che fosse lei a offrirmela.»

Makepeace ci pensò su qualche istante, quasi stesse giudicando se si trattasse di un motivo sufficiente per una punizione. «Be’» disse infine «certo, da lei c’è da aspettarsi questo e altro, ma non importa. Nel secchio di legno c’è ancora acqua sufficiente perché io possa metterne da parte qualche sorsata per Hank Dowser. Gli ho promesso di fargli bere l’acqua del primo secchio, e quando ripasserà di qui manterrò la mia parola.»

«Quando ripasserà, signore…» mormorò Alvin. «Be’, spero che non vi rincresca, tuttavia penso che sarebbe molto meglio se non mi trovassi a casa… Meglio per me, ma anche per lui, se capite quello che voglio dire. Non penso di andargli molto a genio.»

Il fabbro lo guardò socchiudendo gli occhi. «Se questa è solo una scusa per scansare qualche ora di lavoro quando quel rabdomante tornerà da queste parti, ebbene…» e all’improvviso sorrise «ebbene, penso che tu te lo sia proprio guadagnato con il lavoro di stanotte.»

«Grazie, signore» disse Alvin.

«Stavi tornando a casa?»

«Sissignore.»

«Bene, gli attrezzi li rimetto a posto io… Tu porta questo secchio alla signora. Lo sta aspettando. Per attingere l’acqua, qui è molto più comodo della sorgente. Devo ricordarmi di ringraziare Hank Dowser per aver scelto proprio questo punto.» Quando Alvin entrò in casa, il fabbro stava ancora ridacchiando per la propria battuta.

Gertie Smith prese il secchio, fece sedere Alvin, e lo riempì quasi fino all’orlo di pancetta fritta e ottime focacce al lardo, tanto che alla fine il ragazzo dovette pregarla di smettere. «Un maiale l’abbiamo già finito» le disse. «Non c’è bisogno di ammazzarne un altro solo perché io possa fare colazione.»

«I maiali sono solo granturco su zoccoli» replicò Gertie Smith. «E la notte scorsa hai lavorato abbastanza da meritartene due, di porci.»

Pieno da scoppiare, Alvin salì ruttando la scala a pioli che portava al soppalco sopra la cucina, si spogliò e si ficcò sotto le lenzuola.

Il Creatore è colui che è parte di ciò che crea.

Più e più volte ripeté a se stesso quelle parole prima di addormentarsi. Stavolta non ebbe né incubi né altre sgradevoli esperienze e dormì come un sasso fino all’ora di cena, e poi per tutta la notte fino a poco prima dell’alba.

Quando si svegliò, il mattino dopo, dalle finestre filtrava una debole luce grigiastra, che a malapena si poteva distinguere dal chiaro di luna. Quella luce era così fioca che non riusciva nemmeno ad arrivare al soppalco. Invece di saltare giù dal letto pieno di energie, come faceva il più delle volte, Alvin si sentiva intorpidito dal sonno e con i muscoli indolenziti dalla fatica. Perciò se ne rimase tranquillo sotto le lenzuola, mentre in un remoto cantuccio della sua mente si levava una specie di lontano canto d’uccello. Non pensò tuttavia alla frase che Arthur Stuart gli aveva rivolto mentre ascoltava il canto di Pettirosso. S’interrogò invece su ciò che era accaduto il giorno prima. Possibile che l’inverno si fosse mutato in estate solo perché lui si era messo a gridare?

«Estate» sussurrò. «Aria tiepida, verdi foglie.» Che cos’aveva Alvin per cui, quando aveva detto estate, l’estate era arrivata? Sicuramente le cose non andavano sempre in quel modo, nemmeno quando lavorava il ferro o entrava nella pietra per tagliarla o sagomarla. In quelle circostanze doveva concentrarsi sulla forma dell’oggetto, capire come tutte le sue parti fossero disposte, trovare le fessure e le spaccature naturali, i filamenti del metallo o la grana della pietra. Se poi curava qualcuno, era una gran fatica perché doveva concentrare ogni suo pensiero sul modo in cui il corpo del paziente avrebbe dovuto essere, e poi aggiustarlo. Tutto era così piccolo, così difficile da vedere… Insomma, non proprio vedere, ma qualcosa del genere. Qualche volta, per capire come funzionavano le cose là dentro, Alvin doveva sudare sette camicie.

Là dentro, laggiù in fondo, tutto era così piccolo e sottile, e i segreti più riposti del funzionamento del corpo sfrecciavano da tutte le parti come scarafaggi quando si entra nella stanza con una lampada in mano, facendosi sempre più piccoli, componendosi e ricomponendosi in forme sempre nuove e bizzarre. Esisteva forse una particella che fosse più piccola di tutte le altre? Un qualche luogo nel cuore stesso delle cose dove ciò che vedeva fosse reale, invece di essere costituito d’innumerevoli pezzi sempre più piccoli, a loro volta fatti di pezzi ancora più piccoli?

Tuttora non capiva in che modo il Distruttore potesse improvvisamente far giungere l’inverno. Com’era possibile, dunque, che le sue grida disperate avessero richiamato l’estate?

Come posso essere un Creatore se non riesco nemmeno a capire come faccio quello che già so fare?

La luce proveniente dall’esterno adesso era più chiara, e scintillava attraverso il vetro irregolare delle finestre. Per un istante, ad Alvin sembrò di vedere la luce sotto forma di minuscole sfere che volavano a velocità straordinaria, come se fossero state colpite da un bastone o sparate da un fucile, solo più veloci ancora: rimbalzavano di qua e di là, e la maggior parte di esse andava a incagliarsi nelle minuscole fessure delle pareti di legno, del pavimento o del soffitto, così che solo pochissime riuscivano ad arrivare al soppalco dove venivano catturate dagli occhi di Alvin.

Quel momento passò, e la luce era soltanto fuoco, puro fuoco, che si allargava nella stanza in cerchi concentrici come le piccole onde che lambivano delicatamente le rive del lago Mizogan. Ovunque giungessero quelle onde, riscaldavano tutto ciò che toccavano — il legno delle pareti, il pesante tavolo di cucina, il ferro della stufa — così che tutto vibrava e danzava di vita. Solo Alvin poteva vederlo, solo Alvin capiva come l’intera stanza si destasse al sorgere del giorno.

Il fuoco del sole, ecco ciò che il Distruttore odia sopra ogni cosa. La vita che esso genera. Spegnere quel fuoco, ecco ciò che il Distruttore dice a se stesso. Spegnere ogni fuoco, trasformare l’acqua in ghiaccio, ricoprire il mondo di una liscia superficie di ghiaccio, far sì che il cielo sia nero e freddo come la notte. E, a contrastare i voleri del Distruttore, un misero Creatore che non riesce a fare le cose come si deve neanche scavando un misero pozzo.

Il Creatore è colui che è parte di ciò che… Parte di che cosa? Che cosa creo, io? Come posso esserne parte? Quando lavoro il ferro, sono forse parte del ferro? Quando taglio la pietra, sono forse parte della pietra? Tutto questo non ha alcun senso, eppure debbo capirci qualcosa, o perderò la mia battaglia con il Distruttore. Potrei battermi con lui ogni giorno, in tutti i modi che conosco; ma, quando morirò, il mondo si troverà molto più avanti sulla china rovinosa su cui l’ho trovato alla mia nascita. Dev’esserci qualche segreto, una chiave, un modo per ricostruire tutto insieme. Devo trovare la chiave, ecco tutto, scoprire il segreto, e poi mi basterà pronunciare una parola e il Distruttore indietreggerà, atterrito, andrà a nascondersi, si dichiarerà vinto e sparirà, forse addirittura morirà, in modo che la vita e la luce possano esistere per sempre senza mai affievolirsi.