Alvin credeva a malapena alle sue orecchie. Due persone sposate non potevano dirsi cose del genere. Non si sarebbe stupito di udire l’eco di uno schiaffo. Ma a quanto pareva Horace aveva incassato in silenzio. Tutti dicevano che si lasciava mettere i piedi in testa dalla moglie, e questa ne era una evidente dimostrazione: pensate un po’, lasciarsi accusare dalla propria consorte di aspirare all’adulterio e non picchiarla, o quanto meno non risponderle per le rime!
«Non importa» disse la vecchia Peg. «Può darsi che alla fine l’abbia vinta tu, e lei dica di no. Ma noi il deposito lo sistemeremo comunque, e gliel’offriremo.»
Horace borbottò qualcosa che Alvin non riuscì a capire.
«Non m’importa nulla se questo deposito l’ha costruito la piccola Peggy. Se n’è andata di sua spontanea volontà, se n’è andata senza dirmi neanche una parola, e non ho nessuna intenzione di conservare questa baracca come un monumento solo perché da piccola aveva l’abitudine di venire quassù. Mi hai sentito?»
Anche stavolta Alvin non riuscì a udire la risposta di Horace.
Ma la vecchia Peg la udì, eccome. La sua voce arrivava fino a lui come il crepitio di una saetta. «E tu vieni a parlarmi di amore? Be’, lasciatelo dire, Horace Guester, tutto il tuo amore per la piccola Peggy è forse servito a trattenerla in casa nostra? Ma il mio amore per Arthur Stuart gli procurerà un’istruzione, hai capito? E, alla resa dei conti, vedremo chi di noi due avrà saputo amare meglio i suoi figli!»
Quello che seguì non fu proprio il rumore di uno schiaffo o simili, bensì quello di una porta sbattuta con tanta violenza che fu un miracolo se non saltarono entrambi i cardini. Alvin non poté fare a meno di allungare il collo per vedere chi fosse stato. E in effetti scorse la vecchia Peg che si allontanava a lunghi passi.
Un minuto dopo, forse qualcosa di più, la porta si riaprì molto, molto lentamente. Alvin riusciva a malapena a distinguerla tra i cespugli e il fogliame cresciuti tra il pozzo e il deposito. Ne uscì con grande lentezza Horace Guester, col viso rabbuiato come Alvin non l’aveva mai visto prima d’allora. Restò lì per qualche istante, con la mano sulla maniglia. Poi richiuse la porta con la stessa delicatezza con cui avrebbe rimboccato le coperte a un neonato. Alvin si era sempre chiesto come mai non avessero abbattuto il deposito anni prima, quando Alvin aveva scavato il pozzo che aveva fatto definitivamente seccare la sorgente. O almeno perché non l’avessero adibito a qualche altro uso. Alvin sapeva vagamente che tutto ciò aveva a che fare con Peggy, la fiaccola che se n’era andata poco prima che Alvin arrivasse a Hatrack. Il modo in cui Horace sfiorò quella porta, il modo in cui la richiuse, fece capire ad Alvin quanto amore un padre potesse provare per la propria creatura. Dopo tutti quegli anni, i posti che la figlia aveva amato erano ancora sacri, per lui. Per la prima volta Alvin si chiese se anche lui avrebbe potuto provare tanto amore per un figlio. E poi si chiese chi avrebbe potuto essere la madre di quel figlio, e se l’avrebbe mai preso a male parole come la vecchia Peg aveva fatto con Horace, e se egli stesso avrebbe mai litigato con lei come Makepeace con sua moglie Gertie, lui rincorrendola con la cintura in mano, e lei bersagliandolo di piatti e scodelle.
«Alvin» disse Horace.
Sorpreso in flagrante a spiare Horace, Alvin avrebbe anche potuto morire dalla vergogna. «Scusatemi, signore» mormorò Alvin. «Non avrei dovuto ascoltare.»
Horace sorrise debolmente. «Credo che per non sentire avresti dovuto essere sordo come una campana.»
«Sì, avevate alzato un po’ la voce» borbottò Alvin «però io nemmeno mi sono sforzato di non ascoltare.»
«Be’, so che sei un bravo ragazzo, e non hai la fama del chiacchierone.»
Alle parole «bravo ragazzo» Alvin provò un certo fastidio. Aveva ormai diciotto anni, gli mancava meno di un anno a compierne diciannove, e da molto tempo sarebbe stato pronto a mettersi in proprio. Il fatto che Makepeace Smith non volesse saperne di rinunciare al suo apprendista prima del termine stabilito non autorizzava Horace Guester a chiamarlo «ragazzo». Può ben darsi che di fronte alla legge io sia ancora un semplice apprendista e non ancora un libero artigiano, ma nessuna donna può zittirmi a forza di strilli.
«Alvin» disse Horace «ti pregherei di dire al tuo padrone che abbiamo bisogno di una serratura e di un paio di cardini nuovi per la porta del deposito. A quanto pare lo risistemiamo per la nuova maestra, se lei sarà d’accordo.»
Dunque le cose stavano così. Horace aveva perso la battaglia con la vecchia Peg. Aveva ceduto. Era così che andava, dunque, tra coniugi? O il marito picchiava la moglie, come Makepeace Smith, oppure doveva rassegnarsi a fare tutto quello che lei voleva, come il povero Horace Guester. Be’, se le alternative sono queste, la cosa non m’interessa, pensò Alvin. Non che in città non guardasse le ragazze. Le vedeva pavoneggiarsi per il corso, con il seno spinto in alto dal busto, la vita così sottile che lui avrebbe potuto stringerla tutta nelle sue mani grandi e forti… Però Alvin non pensava mai ad afferrare o sollevare quelle fanciulle: lo facevano solo sentire caldo e vergognoso allo stesso tempo, e così, quando lo guardavano, lui abbassava lo sguardo, o ricominciava immediatamente a caricare, a scaricare, o comunque a fare ciò per cui era sceso in città.
Alvin sapeva bene che cosa vedevano in lui, quelle ragazze di città. Vedevano un uomo senza soprabito, in maniche di camicia, tutto sudato e impolverato. Vedevano un pover’uomo che non avrebbe mai potuto alloggiarle in una bella casetta di legno come quella dei loro paparini, che sicuramente facevano il giudice, l’avvocato o il mercante. Lo giudicavano inferiore, un semplice apprendista a diciott’anni compiuti. Se per miracolo avesse mai potuto sposare una di quelle ragazze, sapeva bene come sarebbe andata a finire: lei l’avrebbe sempre guardato dall’alto in basso, aspettandosi che egli le cedesse il passo come a una signora.
E se avesse sposato una ragazza della sua stessa condizione, sarebbe stata una come Gertie Smith o la vecchia Peg Guester, una brava cuoca o una buona lavoratrice o quel che si voleva, ma un diavolo dell’inferno se non l’avesse sempre avuta vinta. Nella vita di Alvin Smith non c’era posto per una donna, questo era sicuro. Non si sarebbe mai lasciato mettere i piedi in testa da una donna come faceva Horace Guester.
«Mi hai sentito, Alvin?»
«Sì, signor Horace, e non appena vedo Makepeace Smith glielo dico. Serratura e cardini per il deposito.»
«E che sia un lavoro ben fatto» disse Horace. «In quel deposito ci deve andare ad abitare la maestra.» Horace tuttavia non era così avvilito da non aggiungere con un ghigno: «In modo da poter dare lezioni private».
Dal tono con cui aveva detto «lezioni private» si sarebbe potuto pensare a un bordello o qualcosa del genere, ma Alvin capì immediatamente, mettendo insieme ciò che sapeva, chi sarebbe stato a usufruire di quelle lezioni private. Non lo sapevano forse tutti che la vecchia Peg aveva chiesto che Arthur Stuart potesse frequentare la scuola?
«Bene, ci vediamo» disse Horace.
Alvin lo salutò con la mano, e Horace si avviò lentamente sul sentiero che conduceva alla locanda.
Quel pomeriggio, Makepeace Smith non si fece vedere. Alvin non ne fu sorpreso. Ora che Alvin era un uomo fatto, poteva svolgere tutto il lavoro della fucina meglio e più in fretta di Makepeace. Nessuno ne aveva mai fatto parola, ma già l’anno prima Alvin si era accorto che i clienti avevano cominciato a farsi vedere quando Makepeace non si trovava alla fucina. Di solito chiedevano a Alvin di sbrigare qualche lavoretto lì per lì, mentre aspettavano. «Una cosetta da nulla» sostenevano, solo che a volte proprio da nulla non era. E ben presto Alvin si era reso conto che quelle persone non capitavano lì per caso, ma perché volevano che fosse Alvin a fare il lavoro di cui avevano bisogno.