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«Smettila, Arthur Stuart» disse Alvin.

«Del pettirosso non ho mai detto nulla a nessuno, però» esclamò il ragazzino.

A quelle parole Alvin sentì un brivido percorrergli la schiena. In qualche modo si era immaginato che quel giorno, più di tre anni prima, Arthur Stuart fosse troppo piccolo per ricordare davvero quel che era successo. Ma Alvin avrebbe dovuto sapere che, se Arthur Stuart non parlava di una cosa, questo non significava che l’avesse dimenticata. Arthur Stuart non dimenticava mai niente, nemmeno il passaggio di un bruco su una foglia.

Se Arthur Stuart ricordava il pettirosso, allora sicuramente ricordava anche quel giorno in cui in piena estate si era messo a nevicare, il giorno in cui Alvin aveva fatto ricorso al suo dono per scavare un pozzo e ripulire dal terriccio un lastrone di pietra senza bisogno di usare le mani. E se Arthur Stuart era a conoscenza del dono di Alvin, allora che significato avevano tanti sotterfugi?

«Benissimo, allora» disse Alvin. «Aiutami a risistemare le finestre.» Avrebbe voluto quasi aggiungere: «…A patto che tu non vada a raccontarlo ad anima viva». Ma Arthur Stuart l’aveva già capito. Era una di quelle cose che capiva al volo.

Finirono prima che facesse buio. Alvin modellò il legno delle finestre a mani nude, dando forma a quello che era semplicemente legno inchiodato al legno fino a trasformarlo in una finestra capace di scorrere liberamente su e giù. Sui fianchi del telaio praticò alcuni piccoli buchi, e poi intagliò dei cavicchi di legno da infilarci dentro, in modo che la finestra potesse restare aperta o chiusa a piacere. Naturalmente non perse tempo a intagliare il legno come una persona normale, visto che ogni passata del coltello portava via un truciolo dalla perfetta forma ad arco. Ogni cavicchio richiese circa sei passate.

Nel frattempo Arthur Stuart aveva finito di ripulire le pareti, e poi spazzarono insieme il pavimento: con la scopa, si capisce, ma Alvin fece ricorso al suo dono affinché ogni granello di segatura o di limatura di ferro, ogni frammento di muschio e ogni bioccolo di polvere finissero fuori della soglia. L’unica cosa che non fecero fu ricoprire la striscia di terra che attraversava il pavimento del deposito, dove una volta scorreva il ruscello. Per far questo si sarebbe dovuto abbattere un albero per ricavarne delle tavole, e del resto Alvin cominciava a sentirsi un po’ impaurito, vedendo quante cose aveva fatto in così poco tempo. E se in quel momento fosse arrivato qualcuno e avesse capito che tutto quel lavoro era stato fatto in un solo lungo pomeriggio? Ci sarebbero state domande. Sarebbero nati sospetti.

«Non dire a nessuno che tutto questo l’abbiamo fatto in una sola giornata» disse Alvin.

Arthur Stuart si limitò a sorridere. Aveva appena perso uno degl’incisivi superiori, per cui c’era un punto in cui si scorgeva la gengiva rosea. Rosea come quella di un Bianco, pensò Alvin. In bocca non è diverso da un Bianco. Poi Alvin ebbe l’idea pazzesca di Dio che prendeva tutte le persone morte di questo mondo, le spellava e poi appendeva i loro cadaveri come porci in una macelleria, solo carne e ossa appese lì per i talloni, senza più nemmeno interiora e teste, solo carne. E poi Dio chiedeva a gente come quella del comitato scolastico di Hatrack d’indovinare quali fra tutti quei corpi appartenessero a un Nero, a un Rosso o a un Bianco. E loro non ci riuscivano. Allora Dio diceva: «Dunque, perché diavolo vi è saltato in mente che questo e questo e questo non potessero andare a scuola, mentre questo e questo e questo sì?» Che cosa avrebbero potuto rispondergli? Poi Dio diceva: «Anche voi sotto la pelle non siete che pezzi di carne cruda. Ma per me ha un pessimo sapore, per cui le vostre bistecche le getterò in pasto ai cani».

L’idea era così divertente che Alvin non poté fare a meno di raccontare tutto ad Arthur Stuart, il quale rise fino alle lacrime insieme ad Alvin. Solo dopo aver riso, ad Alvin tornò in mente che forse nessuno aveva spiegato al ragazzino che sua madre aveva cercato d’iscriverlo a scuola e il comitato scolastico l’aveva respinto. «Ma tu lo sai di che si tratta?»

Arthur Stuart non capì la domanda, o forse la capì meglio dello stesso Alvin. Fatto sta che rispose: «La mamma spera che la nuova maestra m’insegni a leggere e a scrivere qui nel deposito sulla sorgente».

«Proprio così» annuì Alvin. Dunque non avrebbe avuto senso parlargli della scuola. O Arthur Stuart sapeva già che cosa pensassero dei Neri alcuni Bianchi, o l’avrebbe scoperto da solo fin troppo presto senza bisogno che Alvin andasse a dirglielo.

«Siamo tutti dei pezzi di carne cruda» disse Arthur Stuart. Stavolta usò una voce strana, che Alvin non aveva mai udito.

«E questa che voce sarebbe?» chiese.

«Dio, si capisce» spiegò Arthur Stuart.

«Ottima imitazione» disse Alvin. Naturalmente il suo voleva essere solo un commento scherzoso.

«Certo che lo è» ribadì Arthur Stuart, in tutta serietà.

In realtà, nessuno salì al deposito sulla sorgente fino al lunedì della settimana successiva, quando Horace fece il suo ingresso nella fucina. Era mattina presto, un momento in cui era più facile trovare Makepeace intento a «insegnare» ad Alvin qualcosa che quest’ultimo sapeva già fare alla perfezione.

«Il mio capo d’opera era un’ancora da nave» stava dicendo Makepeace. «Naturalmente è successo a Newport, prima che mi trasferissi qui all’Ovest. Quelle navi, quelle baleniere, non sono roba da poco come le vostre casette o i vostri carri. Laggiù, quando si lavora il ferro, si fa sul serio. Un ragazzo come te può cavarsela egregiamente da queste parti dove nessuno ha mai visto niente, ma laggiù non combineresti nulla, perché laggiù un fabbro dev’essere un uomo.»

Alvin era abituato a quei discorsi. Li lasciava correre e basta. Però fu contento di vedere Horace arrivare alla fucina, ponendo così fine alle vanterie di Makepeace.

Dopo i saluti e i convenevoli di rito, Horace giunse al sodo. «Sono venuto a vedere se avevate cominciato a far qualcosa per il deposito sulla sorgente.»

Makepeace alzò un sopracciglio e guardò Alvin. Quest’ultimo si rese conto soltanto in quel momento che di quella commissione non aveva ancora fatto parola al suo padrone.

«Già fatto, signore» disse Alvin rivolgendosi a Makepeace… Come se la domanda inespressa di Makepeace fosse stata: «Hai finito?» e non: «Di che lavoro sta parlando?»

«Fatto?» chiese Horace.

Alvin si rivolse direttamente a lui. «Credevo che foste già stato lassù. Mi è sembrato che aveste fretta, perciò l’ho portato avanti nel mio tempo libero.»

«Be’, andiamo a vedere» esclamò Horace. «Venendo qui non mi era nemmeno venuto in mente di dare un’occhiata.»

«Sì, anch’io non sto nella pelle di vederlo, questo lavoro» approvò il fabbro.

«Io resto qui a lavorare» disse Alvin.

«No» fece Makepeace. «Tu invece vieni con noi per farci vedere che cosa sei stato capace di fare nel tuo tempo libero.» Nervoso com’era all’idea di mostrare a quei due il suo lavoro al deposito sulla sorgente, Alvin non fece caso al tono enfatico in cui Makepeace aveva pronunciato le ultime due parole. Per lui era già abbastanza essersi ricordato di mettersi in tasca le chiavi della nuova serratura.

In breve tempo giunsero al deposito. Horace era il tipo d’uomo che non esitava a complimentarsi per un lavoro ben fatto, e così fece anche quella volta. Sfiorò con le dita i nuovi cardini decorati, e ammirò la serratura prima d’infilarvi la chiave. Con grande soddisfazione di Alvin, questa girò senza intoppi. La porta si aprì silenziosamente. Se Horace si era accorto della presenza dei talismani, non lo diede a vedere. Erano altre cose quelle che attiravano la sua attenzione, non la magia.