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«Sissignore. Grazie, signore.»

«Adesso vi lascio al vostro lavoro» disse Horace. «Per la porta ci sono solo queste due chiavi, vero?»

«Sissignore» confermò Alvin. «Le ho oliate perché non si arrugginiscano.»

«E io le terrò oliate. Grazie per avermelo ricordato.»

Horace aprì la porta tenendola aperta con ostentazione finché Makepeace e Alvin non furono usciti a loro volta. Sotto i loro occhi, Horace chiuse accuratamente la porta a chiave. Poi si voltò verso Alvin e sorrise. «Forse il primo lavoro che ti affiderò sarà di fabbricare una serratura come questa per la mia porta d’ingresso.» Scoppiò in una risata e scosse la testa. «No, direi di no. Sono un locandiere. Il mio mestiere è lasciar entrare le persone, non tenerle fuori. Ma in città c’è gente cui questa serratura piacerà sicuramente.»

«Me lo auguro, signore. Grazie.»

Horace annuì di nuovo, poi guardò freddamente Makepeace come a dire: non dimenticare ciò che hai promesso oggi. Poi si avviò a lunghi passi sul sentiero che conduceva alla locanda.

Alvin si avviò a sua volta in direzione della fucina. Alle sue spalle udiva i passi di Makepeace, ma in quel momento una conversazione col suo padrone era l’ultima cosa che desiderava al mondo. Finché Makepeace non apriva bocca, ad Alvin stava più che bene.

Quel silenzio durò finché non si trovarono entrambi all’interno della fucina.

«Quella stufa era assolutamente irrecuperabile» disse Makepeace.

Era l’ultima cosa che Alvin si aspettava di udire, e quella che più gli faceva paura. Niente recriminazioni per avergli concesso del tempo libero; nessun tentativo di riprendersi quel che gli aveva promesso riguardo all’orario di lavoro. Makepeace Smith ricordava quella stufa meglio di quanto Alvin si fosse aspettato.

«Sì, sembrava piuttosto malridotta» mormorò Alvin.

«Non c’era modo di aggiustarla senza rifonderla» precisò Makepeace. «Se non avessi saputo che era impossibile, l’avrei riparata io stesso.»

«Lo pensavo anch’io» fece Alvin. «Ma quando l’ho guardata bene…»

L’espressione sul viso di Makepeace Smith lo costrinse a tacere. Alvin non ebbe più dubbi. Il padrone adesso sapeva ciò che il suo apprendista era in grado di fare. Alvin avvertiva nelle ossa la paura di essere scoperto; proprio come quando, da piccolo, giocava a nascondino insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle, laggiù a Vigor Church. Il momento peggiore era se eri l’ultimo, nessuno ti aveva ancora trovato e tu continuavi ad aspettare e aspettare finché non sentivi un rumore di passi: allora sentivi un pizzicore dappertutto, te lo sentivi in ogni parte del corpo, come se tutta la tua persona si fosse svegliata e avesse un tremendo bisogno di muoversi. Quel pizzicore diventava così insopportabile che avresti voluto saltare in piedi, gridando: «Eccomi qui! Sono qui!» per poi correre come una lepre, ma non verso la meta, correre da qualsiasi parte, semplicemente correre a perdifiato finché ogni muscolo del tuo corpo non avesse esaurito l’ultima briciola di forza e tu non fossi caduto a terra, esausto. Era una pazzia, e da simili pazzie non poteva venire niente di buono. Ma era così che uno si sentiva quando giocava con i suoi fratelli e le sue sorelle, ed era così che si sentiva Alvin, ritenendosi sul punto di essere scoperto.

Però, con sua grande sorpresa, sul volto di Makepeace si dipinse lentamente un sorriso. «Dunque è così» disse. «È proprio così. Ecco che cosa mi nascondevi. Tuo padre l’aveva detto, quando sei venuto al mondo: questo è il settimo figlio di un settimo figlio. Troppo bene ci sapevi fare, con i cavalli, e io me n’ero accorto. E quando hai scavato quel pozzo, trovando il punto giusto come un rabdomante. Anche di questo mi ero accorto. Ma ora…» Makepeace sorrise. «Ero convinto che tu fossi un fabbro nato, e adesso scopro che per tutto questo tempo me l’hai data a bere come un alchimista.»

«Non è vero» protestò Alvin.

«Ah, manterrò il tuo segreto, stanne certo» disse Makepeace. «Non lo racconterò ad anima viva.» Ma rideva in quella sua maniera ambigua, e Alvin capì che il suo padrone magari non l’avrebbe detto a chiare note, ma di allusioni ne avrebbe sparse eccome, di lì fino all’Hio. Tuttavia la cosa che impensieriva di più Alvin era un’altra.

«Signore» esordì. «Tutto il lavoro che ho fatto per voi l’ho sempre fatto onestamente, con le mie braccia e il mio ingegno.» Makepeace annuì con l’aria di chi la sa lunga, come se avesse colto nelle parole di Alvin qualche significato segreto. «Ho capito» annuì. «Con me il tuo segreto è al sicuro. Ma in fondo l’ho sempre sospettato. Non potevi essere quel gran fabbro che sembravi.»

Makepeace Smith non si rendeva conto di quanto fosse vicino alla morte. Alvin non era tipo da lasciarsi travolgere dall’istinto omicida; anche ammesso che fosse nato con qualche tendenza sanguinaria, una simile inclinazione sarebbe stata definitivamente cancellata dopo un certo giorno trascorso all’interno della Collina Ottagonale, quasi sette anni prima. Però, nei lunghi anni del suo apprendistato, non aveva mai udito da quell’uomo una sola parola di lode: sull’apprendista erano piovute soltanto lamentele a proposito della sua pigrizia e dei difetti del suo lavoro… Dunque per tutto quel tempo Makepeace Smith non aveva fatto altro che mentire, giacché sapeva benissimo che Alvin era davvero in gamba. Solo quando si era convinto che per i suoi lavori alla forgia Alvin avesse fatto ricorso a qualche potere segreto, solo allora Makepeace aveva ammesso la straordinaria bravura del ragazzo. Alvin lo sapeva, naturalmente, sapeva di essere un fabbro nato, ma non sentirselo mai dire ad alta voce gli aveva fatto più male di quanto egli stesso potesse rendersi conto. Il suo padrone non sapeva quanto avrebbe significato per lui una semplice parola di approvazione, che so, un: «Ottimo lavoro, ragazzo mio», oppure: «Ci sai fare sul serio». Ma Makepeace non aveva saputo dire niente del genere: aveva continuato a mentire e a fingere che Alvin non avesse alcun talento, finché non si era convinto che il talento di Alvin in realtà non aveva niente a che vedere con il mestiere del fabbro.

Alvin avrebbe voluto stendere il braccio, agguantare Makepeace per i capelli e sbattergli la testa sull’incudine con tanta forza che la verità s’imprimesse nel cranio e nel cervello di Makepeace. In questa fucina non ho mai usato i miei poteri di Creatore, pensò, non li ho usati finché non sono cresciuto abbastanza da lavorare il ferro da solo, ricorrendo soltanto alla forza e all’esperienza, perciò non sorridermi con quell’aria compiaciuta come se non fossi un vero fabbro, bensì una specie di ciarlatano. E poi, anche se avessi usato le mie arti di Creatore, credi davvero che sia così facile? Non sai che anche quelle arti ho dovuto pagarle a caro prezzo?

Tutta la furia di Alvin, tutti gli anni di schiavitù, tutti gli anni di rabbia per le ingiustizie cui era stato assoggettato dal suo padrone, tutti gli anni di sotterfugi e di misteri, il suo desiderio disperato di sapere che cosa fare della sua vita senza avere una persona sola al mondo cui chiederlo, tutto questo in Alvin divampava con una fiamma più rovente del fuoco della forgia. Ora il pizzicore e il formicolio che provava non erano più voglia di scappare. No, erano voglia di violenza, voglia di cancellare quel sorriso dalla faccia di Makepeace, di cancellarlo per sempre contro il corno dell’incudine.

Ma in qualche modo Alvin restò fermo, muto, immobile come un animale che cercasse di rendersi invisibile. E in quell’immobilità Alvin avvertì intorno a sé il canto verde, e lasciò che la vita della foresta si riversasse in lui, colmasse il suo cuore, gli portasse la pace. Il canto verde della foresta non era più forte come una volta, più a ovest, in tempi più selvaggi, quando l’uomo rosso univa ancora il suo canto a quella musica. Ora era più debole, e talvolta veniva quasi soffocato dal fragore disarmonico della vita cittadina, o dalla vibrazione monotona dei campi ben curati. Tuttavia, se ne aveva bisogno, Alvin riusciva ancora a udire quel canto, e cantare insieme a esso, e lasciare che s’impossessasse di lui e placasse il suo cuore.