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Makepeace Smith sapeva di essere così vicino alla morte? Se fossero venuti alle mani, infatti, non avrebbe certamente potuto tener testa al suo apprendista, molto più giovane e alto di lui e con il cuore infiammato dall’ira. Che Makepeace intuisse il pericolo oppure no, fatto sta che il sorrisetto scomparve dal suo volto, ed egli annuì solennemente. «Manterrò tutto quello che ho detto lassù al deposito, anche se Horace si è approfittato della situazione. So che probabilmente sei stato tu a mettergli la pulce nell’orecchio, ma sono un uomo giusto, per cui ti perdonerò, a patto che tu continui a darmi una mano fino alla scadenza del tuo contratto.»

L’accusa di aver cospirato con Horace avrebbe dovuto rinfocolare l’ira di Alvin, ma ormai il canto verde lo possedeva, cosicché in realtà adesso non si trovava nemmeno più nella fucina. Era in quella sorta di trance in cui aveva imparato a entrare correndo con i Rossi di Ta-Kumsaw, uno stato in cui ti dimentichi chi sei e dove ti trovi, e il tuo corpo è soltanto una creatura che corre nei boschi in lontananza.

Makepeace restò in attesa di una risposta, ma questa tardava. Perciò il fabbro si limitò ad annuire con aria saputa e fece per andarsene. «Devo sbrigare una faccenda in città» borbottò. «Vedi di non battere la fiacca.» Fatto qualche passo, si arrestò sull’ampia soglia, tornando a rivolgersi verso l’interno della fucina. «Già che ci sei, potresti anche riparare le altre stufe rotte che ci sono nel capanno» disse. E se ne andò.

Alvin rimase dov’era per molto tempo, senza fare il minimo movimento, addirittura inconsapevole di possedere un corpo capace di muoversi. Prima che tornasse in sé era ormai mezzogiorno passato. Il suo cuore era tranquillo, senza una sola scintilla di rabbia. Se ci avesse pensato, avrebbe saputo che quella rabbia sarebbe tornata a divampare, che in realtà continuava a covare sotto la cenere. Ma per il momento gli bastava aver recuperato la serenità. Il suo contratto sarebbe scaduto quella primavera, e poi lui se ne sarebbe andato.

Una sola cosa, però. Non gli venne mai in mente di fare ciò che Makepeace gli aveva chiesto, ossia di riparare quelle vecchie stufe. E, in quanto a Makepeace, nemmeno lui tornò più sulla questione. Il dono di Alvin non rientrava nel suo apprendistato, e in fondo Makepeace doveva averlo capito, doveva aver capito di non avere il diritto di dire al giovane Alvin che cosa doveva fare quando creava.

Qualche giorno più tardi, Alvin si trovò tra coloro che aiutavano a montare il nuovo pavimento del deposito. Horace lo prese da una parte per chiedergli come mai non fosse mai andato a ritirare i suoi quattro dollari.

Alvin non poteva dirgli tutta la verità, cioè che non avrebbe mai potuto accettare del denaro per ciò che faceva ricorrendo al suo dono. «Consideratelo un contributo per lo stipendio della nuova maestra» disse.

«Ma tu non hai proprietà sulle quali pagare le tasse» gli fece notare Horace «né figli da mandare a scuola.»

«Allora diciamo che voglio pagarvi per il pezzetto di terra in cui riposa il corpo di mio fratello, lassù dietro la locanda» insistette Alvin.

Horace annuì solennemente. «Quel debito, se mai c’è stato, è stato più che ripagato dal lavoro di tuo padre e dei tuoi fratelli diciassette anni fa, giovane Alvin, comunque rispetto il tuo desiderio di pagare la tua parte. Perciò stavolta possiamo considerarci in pari. Ma per qualsiasi altro lavoro che farai per me sarai pagato a salario intero, siamo intesi?»

«Sissignore» disse Alvin. «Grazie, signore.»

«Chiamami Horace, figliolo. Quando un uomo fatto mi chiama ‘signore’, mi sento vecchio.»

Poi si rimisero al lavoro, e nessuno fece ulteriori commenti sulle migliorie che il ragazzo aveva apportato al vecchio deposito. Ma una cosa Alvin non se la dimenticò: ciò che Horace aveva detto quando lui gli aveva proposto di considerare il suo compenso come un contributo per lo stipendio della maestra: «Ma tu non hai proprietà sulle quali pagare le tasse, né figli da mandare a scuola». Questa era la realtà, espressa in poche e semplici parole. Ed era anche il motivo per cui, sebbene Alvin fosse ormai cresciuto e Horace l’avesse definito «un uomo fatto», in realtà non era ancora un uomo, nemmeno ai suoi stessi occhi. Perché non aveva famiglia. Perché non aveva né casa né terra. Finché non le avesse avute, sarebbe rimasto solo un ragazzone. Un bambino come Arthur Stuart, solo più alto, con quella poca barba che gli spuntava dal mento quando non si rasava.

E proprio come Arthur Stuart, non aveva niente a che fare con la scuola. Era troppo vecchio. La scuola non era stata pensata per quelli come lui. E allora perché era così ansioso di vedere la nuova maestra? Perché quando pensava a lei si sentiva invadere dalla speranza? La maestra non sarebbe venuta per lui, eppure Alvin sapeva che tutto ciò che aveva fatto al deposito era stato per lei, come per maturare un credito nei suoi confronti, o forse per ringraziarla in anticipo di ciò che così disperatamente avrebbe desiderato da lei.

Insegnami, disse in silenzio. Ho un’Opera da compiere su questa terra, ma nessuno sa che cosa sia o come si possa compiere. Insegnami. Ecco che cosa voglio da te, Signora: voglio che tu mi aiuti a trovare la mia strada fino alle radici del mondo o alle radici di me stesso o al trono di Dio o al cuore del Distruttore, ovunque insomma si trovi il segreto della Creazione, così che io possa operare contro le nevi dell’inverno, o accendere una luce al sopraggiungere delle tenebre.

XIV

RATTI DI FIUME

Il giorno in cui la maestra arrivò, Alvin si trovava alla Foce. Makepeace lo aveva mandato col carro a ritirare un carico di ferro giunto per via fluviale. Un tempo, la Foce era formata da un unico molo, un punto di sosta per i battelli che venivano a scaricare merce per la città di Hatrack. Ma ora che il traffico fluviale si faceva più intenso e, giacché i nuovi insediamenti su entrambe le rive dell’Hio diventavano sempre più numerosi, erano nate anche locande e botteghe dove gli agricoltori potevano vendere provviste alle imbarcazioni di passaggio e i viaggiatori fermarsi per la notte. La Foce e la città di Hatrack stavano diventando sempre più importanti, anche perché quello era l’ultimo punto in cui l’Hio scorreva in prossimità della famosa pista del Wobbish, la stessa pista che il padre e i fratelli di Alvin avevano aperto in mezzo ai boschi fino a Vigor Church. Così i nuovi coloni scendevano il fiume sino alla Foce, dove scaricavano carri e cavalli per procedere verso ovest per via di terra.

Alla Foce c’erano anche attrazioni di genere particolare che a Hatrack non sarebbero state tollerate: case da gioco, dove si giocava a poker e ad altri giochi d’azzardo e il denaro cambiava velocemente di mano, dato che la legge non si mostrava particolarmente desiderosa d’investigare nelle tane dei ratti di fiume e consimile marmaglia. E al piano superiore di quelle case si vociferava che abitassero donne che praticavano un mestiere di cui la gente per bene non parlava nemmeno sottovoce, e del quale i ragazzi dell’età di Alvin parlavano a bassa voce, tra scoppi di risatine nervose.

Il motivo per cui Alvin aspettava con ansia quei viaggi alla Foce, però, non era tanto l’idea delle gonne sollevate e delle cosce nude. Di quelle case Alvin a malapena si accorgeva, sapendo che ciò che vi avveniva non lo riguardava. Era il molo ad attirarlo, la capitaneria e il fiume stesso, percorso in continuazione da battelli e da chiatte, dieci che andavano verso valle contro una che procedeva nella direzione opposta. I suoi preferiti erano i battelli a vapore, che navigavano tra fischi e sbuffi a velocità innaturale. Mossi dai pesanti motori costruiti nell’Irrakwa, quei battelli fluviali erano lunghi e larghi, eppure risalivano la corrente più in fretta di quanto una chiatta potesse discenderla. Sull’Hio adesso ce n’erano otto, che facevano la spola tra Dekane e Sphinx. Ma non si spingevano oltre, perché da Sphinx in poi il Mizzipy era immerso nelle nebbie e quasi nessuno osava inoltrarsi in quelle acque.