Peggy avrebbe voluto corrergli incontro, chiamarlo «papà», e assicurargli che ad abitare in quel luogo era proprio sua figlia, che tutta la fatica che aveva sopportato per trasformare il deposito in una casa era stata in realtà un dono d’amore per lei. Com’era consolante vedere quanto egli l’amasse, rendersi conto che egli non l’aveva dimenticata dopo tutti quegli anni; ma allo stesso tempo le spezzava il cuore sapere che non poteva ancora rivelarsi nemmeno a lui, se voleva compiere la missione che l’attendeva. Anche con lui avrebbe dovuto comportarsi esattamente come con Alvin e con sua madre: non rivangare gli affetti e i debiti del passato, bensì conquistarsi da capo il suo amore e la sua amicizia.
Non poteva tornare a casa come una figlia di quei luoghi, nemmeno con suo padre, che sarebbe stato il solo a gioire con tutto se stesso per il suo arrivo. Doveva tornare a casa come un’estranea. E infatti proprio un’estranea era diventata, anche senza travestimenti. Dopo tre anni di apprendistato a Dekane, e altri tre di scuola e di studio, non era più la piccola Peggy, la giovane fiaccola silenziosa ma dalla lingua tagliente; da lungo tempo si era trasformata in un’altra persona. Molte cose le aveva imparate sotto la supervisione di Modesty; molte altre dai libri e dagl’insegnanti. Era davvero cambiata. Esclamare: «Papà, sono tua figlia, la piccola Peggy» sarebbe stata una menzogna, esattamente come lo era ciò che disse in quell’occasione: «Signor Guester, sono la signorina Larner, la vostra nuova inquilina. Molto felice di fare la vostra conoscenza».
Horace si avvicinò a lei ancora boccheggiante e le tese la mano. Nonostante i suoi cattivi presentimenti, nonostante il modo in cui aveva evitato d’incontrarla quando era arrivata alla locanda un’ora prima, era un locandiere troppo consumato per rifiutarsi di salutarla cortesemente, o per lo meno con le rozze maniere contadinesche che in quella cittadina di frontiera passavano per cortesia.
«Piacere di conoscervi, signorina Larner. Spero che l’alloggio sia di vostro gradimento.»
Peggy provò una certa tristezza nell’udirlo rivolgersi a lei con quelle espressioni ricercate che era solito usare con i clienti da lui considerati «di riguardo», ossia di condizione sociale superiore alla sua. In tutto questo tempo ho imparato molte cose, papà, e la più importante è questa: che nessuna condizione è inferiore o superiore a un’altra, se chi la occupa è una persona di buon cuore.
Del fatto che Horace fosse una persona di buon cuore Peggy era assolutamente convinta, anche se si trattenne dal guardare la sua fiamma vitale. In passato l’aveva esplorata con un’intensità quasi eccessiva. Adesso, se l’avesse osservata da vicino, avrebbe potuto scoprire cose che una figlia non aveva il diritto di sapere. Anni prima era stata troppo piccola per controllarsi quando esplorava la fiamma vitale di un altro; nell’innocenza dell’infanzia, aveva appreso cose tali da rendere impossibili tanto l’innocenza quanto l’infanzia. Ma ora che il dono di Peggy era stato domato, lei poteva lasciare a lui solo l’intimità del suo cuore. Glielo doveva, a lui come a mamma.
E soprattutto doveva a se stessa la possibilità di non conoscere esattamente ciò che essi pensavano e provavano a proposito di qualsiasi cosa.
Sistemarono la vasca nella casetta. Mamma aveva portato un altro secchio e una grande pentola, e ora papà e Alvin cominciarono a far la spola tra la casa e il pozzo, mentre mamma faceva bollire l’acqua sulla stufa. Quando il bagno fu pronto, gli uomini furono licenziati; e poco dopo Peggy riuscì a mandar via anche sua madre, non senza rimostranze da parte di quest’ultima.
«Vi sono grata per la vostra sollecitudine» le disse «ma è mia abitudine fare le mie abluzioni in completa solitudine. Siete stata straordinariamente gentile, e mentre farò il bagno, da sola, potete star certa che penserò a voi con gratitudine in ogni momento.»
Quel fiume di parole forbite era più di quanto mamma potesse sopportare. Finalmente la porta fu chiusa, la chiave girata, le tendine tirate. Peggy si tolse l’abito da viaggio, appesantito dalla polvere e dal sudore, quindi si sfilò la camiciola e le mutande, che le aderivano sgradevolmente alla pelle. Uno dei vantaggi del suo travestimento era che non doveva sopportare il fastidio aggiuntivo del busto. Nessuno si aspettava che una zitella dell’età che Peggy si era attribuita avesse lo stesso giro vita perversamente sottile di quelle povere giovani vittime della moda che si strizzavano nel busto al punto di non poter più respirare.
In ultimo si levò gli amuleti, i tre che le pendevano dal collo e quello nascosto nella crocchia. Quegli amuleti le erano costati parecchio in tutti i sensi, e non solo perché si trattava del tipo più nuovo e costoso che agiva su ciò che gli altri realmente vedevano anziché sulla loro opinione in proposito. Erano state anche necessarie quattro visite prima che il fabbricante di talismani si convincesse che Peggy voleva veramente apparire brutta. «Una bella ragazza come voi non ha bisogno della mia arte» le aveva risposto più e più volte, finché lei non l’aveva preso per le spalle dicendo: «Ecco perché ne ho bisogno! Per smettere di essere bella». L’uomo aveva ceduto, brontolando che era male nascondere ciò in cui Dio aveva profuso tanti sforzi.
Dio o Modesty, pensò Peggy. In casa di Modesty… là sì che ero bella. Chissà se lo sono tuttora, qui dove nessuno può vedermi all’infuori di me stessa, che sono la meno portata ad ammirarmi?
Finalmente nuda, finalmente se stessa, si inginocchiò davanti alla vasca e tuffò la testa nell’acqua per cominciare a lavarsi i capelli. Immersa nell’acqua calda, provò la stessa sensazione di completa libertà che aveva provato tanti anni prima nel deposito sulla sorgente: quell’umido isolamento in cui nessuna fiamma vitale riusciva a penetrare, così che poteva essere davvero se stessa e restare finalmente sola con i suoi pensieri.
In casa non c’erano specchi, né lei se n’era portati dietro. Ciononostante, quando uscì dalla vasca e si asciugò davanti alla stufa, già ricominciando a sudare nella stanza piena di vapore, in quel tardo pomeriggio d’agosto, seppe di essere davvero bella, come Modesty le aveva insegnato a essere; seppe che se Alvin l’avesse vista com’era veramente, l’avrebbe desiderata, non per il suo sapere, bensì in virtù di quell’amore più superficiale e passeggero che qualsiasi uomo prova per una donna che diletti il suo sguardo. Perciò, proprio come una volta era fuggita da lui affinché egli non la sposasse per pietà, ora si celava a lui affinché egli non la sposasse per una fanciullesca infatuazione. Quella sua identità, quel suo corpo giovane e flessuoso, gli sarebbero rimasti nascosti in modo che la vera identità di Peggy, la sua mente acuta e pazientemente educata, potesse far emergere in lui il vero uomo, l’uomo che avrebbe potuto diventare non un amante, ma un Creatore.
Ah, se Peggy avesse potuto in qualche modo celare alla propria vista anche il corpo di lui, così da non essere costretta a immaginare il suo tocco, delicato come quello dell’aria sulla pelle, quando lei si muoveva da una parte all’altra della stanza…
XVI
DIRITTO DI PROPRIETÀ
I Neri cominciarono a ululare prima del canto del gallo. Cavil Planter non si svegliò subito; il rumore in qualche modo andava d’accordo col suo sogno. In quel periodo nei suoi sogni comparivano abbastanza di frequente Neri che ululavano. Alla fine tuttavia Cavil si svegliò e subito balzò giù dal letto. Fuori cominciava appena ad albeggiare; per avere abbastanza luce da trovare i calzoni dovette aprire le tende della finestra. Riuscì a distinguere alcune ombre in movimento davanti alle baracche degli schiavi, ma non capì che cosa stesse accadendo. Naturalmente pensò subito al peggio, e si affrettò a staccare il fucile dalla rastrelliera fissata alla parete della camera da letto. I proprietari di schiavi, nel caso non l’aveste capito, tengono sempre le armi da fuoco nella stessa stanza in cui dormono.