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Mentre proseguivo, lo stomaco si è imposto alla mia attenzione. Mi trasmetteva una sensazione di caldo e di contrazione. Ho cercato di ricordare che avevo mangiato da poco, ma anche quell’idea mi ha lasciato stupefatto e turbato. Il giorno in cui avevo mangiato non era lo stesso giorno in cui stavo camminando. Ma il mio corpo lo sapeva? Anche se avevo attraversato tanti anni, per il mio corpo, a rigor di logica, non dovevano essere trascorse solo poche ore? Eppure, lo stomaco era stravolto, la testa avvolta in un manto di lana, l’intero corpo pesante come una pietra, e irreale. Ma forse la cosa non doveva sorprendermi: mi ero trasferito dal 1971 al 1896 nel giro di qualche secondo.

A quel punto, sono stato colpito da una reazione di forza distruttiva. Ho dovuto fermarmi e appoggiarmi alla parete, ansimante. “Come fanno i miei polmoni a respirare quest’aria?” ho pensato, assurdamente. Ho chiuso gli occhi, ho cercato di ristabilire con forza la consapevolezza del presente. Ero “lì!” Quella convinzione doveva spazzare via tutte le altre. Mi trovavo, anima e corpo, nel…

Un brivido. Che giorno era? Mi ero dato istruzioni per il 19 novembre. Però, quando avevo enunciato, e poi scritto, e poi pensato, quelle istruzioni, era venerdì. Era ancora venerdì? Oppure era il giovedì 19? L’incertezza mi ha spaventato. Se era venerdì, Elise avrebbe recitato di lì a poche ore, e io correvo il rischio di non riuscire a incontrarla.

Ho cominciato a tremare in maniera incontrollabile. Non mi ero mai preoccupato dei particolari del nostro incontro. Per quanto convinto, in maniera assoluta, che fosse possibile, come lo avrei affrontato, in termini pratici? Forse lei stava provando, circondata dai membri della sua compagnia, protetta da Robinson; o magari, per quello che ne sapevo, da una squadra di poliziotti in uniforme. Forse era nella sua stanza, controllata dalla madre; senza dubbio dividevano la stessa camera, e anche quella poteva essere sorvegliata dalla polizia. Oppure stava cenando con sua madre e, probabilmente, con Robinson. In ogni caso, era possibile che fosse circondala da qualcuno deciso a proteggerla. Come sarei riuscito a parlarle, o, tanto più, a perorare la mia causa?

L’assoluta fragilità di ciò che avevo sognato mi ha investito con un furore talmente brutale da togliermi il respiro. A occhi chiusi, mi sono appoggiato alla parete, sopraffatto dai timori. “Era tutto impossibile.” Raggiungere il 1896 era stato uno scherzo, a paragone della difficoltà di incontrare Elise. Ero riuscito ad arrivare lì da solo, senza nessuno che interferisse o mi ostacolasse, a parte me stesso.

Davanti al mio secondo obiettivo si parava un’intera serie di ostacoli umani.

Sono certo che quello sia stato, per me, un apice di crisi. Per minuti (non saprò mai quanti) sono rimasto inerte contro il muro, privo di ogni forza, incapace di continuare; troppo debole persino per prendermela con me stesso per la stupidità di non avere previsto restrizioni così ovvie; distrutto dalla disperazione perché, ormai, tutto mi appariva irraggiungibile.

Forse sarei rimasto lì, inerte (ammesso che la paralisi mentale non dovesse riportarmi subito al 1971), se non avessi udito un inatteso suono di passi. Ho spalancato gli occhi, girato la testa, e visto un uomo che si avvicinava in corridoio.

L’ho fissato con un senso di presentimento. Indossava un abito che mi è parso molto simile a quello di mio fratello in una foto del nostro album di famiglia: tweed grigio, con calzoni alla zuava. Però, mentre l’uomo avanzava, ho scoperto che la giacca era diversa, quasi una camicia, e che le scarpe grigie erano ornate di bottoni, e che nella sua destra c’era una bombetta color grigio perla. La barba rendeva impossibile indovinarne l’età. “Charles Dickens” ricordo di avere confusamente pensato. Sapevo che non poteva essere Dickens, ma la somiglianza era straordinaria.

D’altro canto, io devo essergli parso un relitto umano, perché l’espressione dell’uomo ha denotato dapprima allarme, e subito dopo, preoccupazione. Accelerato il passo, è corso al mio fianco. — Mio caro signore, non si sente bene? — ha chiesto.

Il suono della prima voce che udissi dal mio arrivo nel 1896 mi ha spaventato come una scossa elettrica. Mi ha dato i brividi. — Mio caro “signore” — ha ripetuto l’uomo, prendendomi per un braccio.

Ho fissato il suo viso, lontano solo pochi centimetri dal mio. Quel mattino (per me), quell’uomo era morto da tanti anni; la mia mente non sapeva sfuggire a quel pensiero atroce. Adesso era giovane e vitale; a distanza ravvicinata, mi rendevo conto che doveva essere più giovane di me. Avvertivo la vigorosa pressione delle sue dita sul mio braccio, vedevo la luce della consapevolezza nei suoi occhi azzurri, sentivo persino l’inconfondibile aroma del tabacco nel suo respiro. Era vividamente e magicamente vivo.

— Posso riaccompagnarla alla sua stanza? — ha chiesto.

Io ho deglutito e mi sono fatto forza. Dovevo cominciare ad abituarmi a quella realtà, o l’avrei persa; lo sapevo con estrema chiarezza. — No, grazie — ho risposto, tentando di sorridere. — È solo un leggero attacco di…

Mi sono interrotto, depresso. Stavo per dire “influenza”, ma mi sono reso conto che con ogni probabilità non si usava quel termine, nel 1896. — …Di vertigini — ho concluso sottovoce. — Sono stato malato.

— Forse, se si coricasse un po’… — ha suggerito lui, con un singolare giro di frase. Sembrava sinceramente preoccupato. Ho pensato che il mio primo incontro con un’altra persona si sarebbe potuto concludere in un disastro, se invece di quel giovane mi fossi imbattuto in un vecchio freddo e antipatico, qualcuno che potesse aumentare ancora di più le mie tensioni interiori.

Sono riuscito a sorridere. — No, grazie. Mi passerà — ho detto. — Comunque, apprezzo il suo aiuto.

— Ma non è “nulla” signore. — Con un sorriso, mi ha lasciato il braccio. — È certo che io non possa fare qualcosa per lei?

— No. Grazie. Mi passerà. — Mi rendevo conto di ripetermi, ma non mi venivano in mente altre parole. Come per i miei primi passi in quel nuovo ambiente, stavo iniziando a parlare con claudicante approssimazione.

Lui ha annuito. — Allora… — La sua fronte si è corrugata un’altra volta. — È sicuro? — ha insistito. — Mi sembra piuttosto pallido.

Gli ho risposto con un cenno del capo. — Sì, grazie. Sono… Sono quasi arrivato alla mia stanza — ho aggiunto. La frase mi è spuntata da sola sulle labbra.

— Molto bene. — L’uomo mi ha assestato una pacca cordiale sulla spalla. — Abbia cura di sé.

È ripartito in corridoio e io mi sono avviato nella direzione opposta, perché lui non mi vedesse ancora appoggiato alla parete e si sentisse obbligato a tornare. Procedevo lentamente ma, mi pare di ricordare, con un atteggiamento più o meno eretto. “Un momento vitale” ho pensato di nuovo. Il mio primo incontro con un figlio del 1896. La prova era stata superata con pieno successo.

Il che mi ha portato a pensare che se mi fossi trovato nelle stesse circostanze in un corridoio del 1971, probabilmente nessuno mi avrebbe avvicinato con tanta gentilezza. Se la gente era capace di restare a guardare un omicidio senza aprire bocca, che probabilità c’era che qualcuno non si limitasse a scrutarmi con espressione cinica, vedendomi riverso contro un muro?

Mentre scendevo la scala, ho cominciato a udire un mormorio di voci e un insieme di suoni che non sapevo identificare. “La discesa nel maelstrom” ricordo di avere pensato. La mia seconda prova del fuoco, molto più pericolosa. Mentre prima avevo affrontato un solo corridoio e un uomo preoccupato per la mia salute, stavo per trovarmi di fronte a una moltitudine di persone pienamente immerse nel loro habitat del 1896.