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Ciò che avevo provato nell’avvicinarmi era nulla, a paragone di ciò che sentivo adesso. Corpo e mente erano paralizzati. Non sarei riuscito a muovermi o a parlare nemmeno se si fosse trattato di sfuggire alla morte. Nel mio cervello si agitava un solo pensiero: perché non si muoveva? Perché restava a fissarmi muta? Qualcosa mi diceva che non si trattava di paura, ma al di là di quello mi era impossibile capire il suo comportamento, o reagire in qualche modo.

Poi, all’improvviso, inaspettatamente, lei ha parlato. Il suono della sua voce mi ha fatto sussultare.

— “Sei tu?” — ha chiesto.

Se avessi compilato un elenco di tutte le frasi che lei avrebbe potuto dirmi al primo incontro, quella avrebbe occupato l’ultimo posto, o forse non sarebbe nemmeno comparsa sulla mia lista. L’ho fissata incredulo. Si era verificato un incantesimo al di là di ogni mia fantasia? Lei sapeva già di me? Non potevo crederlo. Eppure, un istante dopo averla udita parlare, ho intuito che mi si offriva la miracolosa occasione di risparmiare intere ore perse nel tentativo di convincerla ad accettarmi. — Sì, Elise — mi sono sentito rispondere.

Lei ha cominciato a tremare, e io ho teso la mano ad afferrarle il braccio. E come potrei descrivere, dopo tutti i miei sogni su lei, la sensazione di scoprire che quei sogni diventavano carne, una carne che vibrava sotto le mie dita? Lei si è irrigidita al contatto, ma io non potevo lasciarla andare. — Stai bene? — le ho chiesto.

Lei non ha risposto; e per quanto io desiderassi, più di ogni altra cosa, sapere cosa pensasse, non sono riuscito ad aggiungere altro, folgorato dalla sua presenza. Di nuovo, come statue, siamo rimasti a fissarci. Temevo che il mio silenzio potesse rubarmi il piccolo vantaggio che avevo acquisito, ma il cervello si rifiutava di funzionare.

Poi lei si è mossa. Si è guardata attorno come riemergendo da una trance. — Devo tornare all’hotel — ha mormorato, più a se stessa che a me, mi è parso.

A quelle parole inattese, la mia modesta vampata di fiducia ha immediatamente cominciato a spegnersi. Ho soffocato l’istinto di battere in ritirata. — La riaccompagno — ho detto. Forse, lungo la strada mi sarebbe venuto in mente qualcosa.

Lei non ha ribattuto. Ci siamo avviati verso l’hotel. Io ero livido di frustrazione. Ero riuscito nella mia incredibile impresa, mi ero spostato nel tempo per stare con lei. Adesso eravamo assieme, “assieme!” camminavamo fianco a fianco, e io non parlavo. Non riuscivo a capirlo.

Ho sobbalzato quando lei ha parlato. Come prima, mi ha colto alla sprovvista. — Posso sapere il suo nome? — ha chiesto. La sua voce era più calma, anche se estremamente esile.

— Richard — ho detto, senza aggiungere il cognome. Non so perché. Forse mi sembrava superfluo. Per me, lei era solo Elise. — Richard — ho ripetuto, senza sapere perché.

Un altro silenzio. Quel momento mi pareva assurdo. Non ero riuscito a immaginare cosa ci saremmo detti incontrandoci, ma non avrei mai creduto che non avremmo detto niente. Ardevo dal desiderio di conoscere le sue sensazioni, ma ero del tutto incapace di sondarle, o di comunicare le mie.

— È ospite dell’hotel? — ha domandato lei.

Ho esitato, in cerca di una risposta. Alla fine ho detto: — Non ancora. Sono appena arrivato.

All’improvviso, ho pensato che lei si fosse spaventata per la mia presenza sin dall’inizio e che stesse cercando di nasconderlo; che aspettasse solo l’occasione per scappare, non appena ci fossimo trovati più vicini all’hotel.

Dovevo saperlo. — Elise, ha paura di me? — ho chiesto.

Lei mi ha scoccato un’occhiata penetrante, come se le avessi letto nel pensiero, poi ha riportato lo sguardo davanti a sé. — No — ha detto. Ma non sembrava troppo convinta.

— Non abbia paura — le ho detto. — Sono l’ultima persona al mondo che lei debba temere.

Altri passi immersi nel silenzio. La mia mente oscillava fra emozione e buonsenso. A livello emotivo, la situazione era ovvia. Avevo attraversato il tempo per stare con lei, e adesso che ero lì, non dovevo perderla. In termini realistici, sapevo di essere per lei un fattore sconosciuto. Ma perché aveva chiesto: — Sei tu? — Quello mi lasciava perplesso.

— Di dov’è? — ha domandato.

— Los Angeles. — Certo non era una bugia, anche se in circostanze simili era tutt’altro che la verità. Avrei voluto dire di più, farle capire il miracolo del nostro incontro; ma non osavo. Raccontarle del mio arrivo lì mi era vietato.

Ormai eravamo quasi alla piccola salita. Nel giro di qualche secondo ci saremmo trovati sul lungomare, e pochi minuti ci avrebbero portati all’hotel. Non potevo continuare a camminare muto al suo fianco. Dovevo iniziare qualcosa, dare il via al processo di avvicinamento. Ma come potevo chiederle di rivederla quella sera stessa? Senza dubbio la attendevano le prove, e poi il ritiro nella sua stanza di buon’ora.

Di colpo, senza un motivo apparente (a meno che il timore di perdere il suo interesse non si fosse trasformato all’istante nel timore di perderla del tutto), mi sono convinto che fosse iniziato il risucchio verso il 1971. Mi sono bloccato, serrando le dita sul suo braccio. La spiaggia ha preso a ondeggiare attorno a me, le tenebre mi sono calate sugli occhi. — No — ho mormorato. — “Non lasciare che lo perda.”

Non ricordo quanto tempo sia durato; possono essere stati secondi, o minuti. La prima cosa che rammento è lei di fronte a me, intenta a fissarmi. E io sapevo che adesso aveva paura. Il suo atteggiamento lo diceva in modo chiaro. — La prego, non si spaventi — ho implorato.

Il suo gemito soffocato mi ha detto che era come se le avessi chiesto di non respirare. — Mi spiace — ho aggiunto. — Non volevo spaventarla.

— Sta bene? — ha chiesto lei. Ho provato un brivido di gratitudine al tono preoccupato della sua voce. Ho tentato di sorridere, di esprimere divertita ironia per me stesso con una risatina. — Sì, grazie — ho risposto. — Forse più tardi potrei spiegarle perché… — Mi sono interrotto. Era indispensabile un maggiore autocontrollo sulle mie parole.

— Adesso riesce a camminare? — ha domandato lei, quasi non si fosse accorta della mia interruzione.

Ho annuito. — Sì. — La mia voce era piuttosto calma, credo, anche se parlare con lei mi pareva incredibile. Non mi ero ancora abituato allo stupore di averla di fronte, di udire il suono della sua voce, di sentire il suo braccio sotto le mie dita.

Con un sussulto, mi sono reso conto di quanto fosse stata forte la mia stretta. — Le ho fatto male? — ho chiesto.

— È tutto a posto.

Una pausa di silenzio, poi ci siamo riavviati verso l’hotel.

— È stato malato? — ha domandato lei.

Io ho provato un senso di bizzarro divertimento. — No. Sono solo un po’ stanco per… il viaggio. — Mi sono fatto forza. — Elise?

Lei ha emesso un suono dal tono interrogativo.

— Possiamo cenare assieme?

Lei non ha risposto, e la mia fiducia è svanita all’istante.

— Non so — ha detto alla fine.

La sensazione di essermi comportato in maniera indecente si è impossessata di me quando, bruscamente, ho ricordato di essere nel 1896. Un perfetto estraneo non poteva avvicinare una donna nubile sulla spiaggia, prenderla per il braccio, accompagnarla senza essere stato invitato, chiedere la sua compagnia a cena. Azioni del genere erano perfettamente normali nel tempo che avevo lasciato, ma non lì.