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Come per rammentarmi quella verità, lei ha chiesto: — Posso sapere il suo cognome, signore? — Il tono formale delle parole mi ha dato una fitta dolorosa, ma ho ribattuto nella stessa chiave. — Mi scusi. Avrei dovuto dirglielo subito. Collier.

— Collier — ha ripetuto lei. Dava quasi l’impressione di voler cavare una logica dal cognome. — E sa chi sono io?

— Elise McKenna.

Ho sentito il suo braccio sussultare leggermente, e mi sono chiesto se lei non pensasse che l’avevo avvicinata perché era un’attrice famosa; che non esistesse proprio alcun mistero, e io fossi solo un innamorato pazzo, o magari un cacciatore di dote.

— Ma non è questo — ho detto, quasi lei sapesse ciò che mi passava per la testa. — Non sono venuto qui perché lei è… quello che è.

Lei non ha ribattuto. Io ho sentito crescere l’ansia, mentre la aiutavo a salire sul lungomare. Come avevo potuto pensare che raggiungerla mi avrebbe dato pace? Certo, non era fuggita, non aveva urlato, ma mi aveva accolto con notevole perplessità, a voler essere ottimisti.

— So che tutto questo le sembra… inspiegabile — ho detto, sperando che non le apparisse invece falso, sospetto. — Ma “c’è” un motivo, e non è disonesto. — Perché mi intestardivo a proseguire su quella strada? Un approccio del genere non poteva che aumentare i suoi sospetti.

Eravamo adesso sul lungomare. Il mio cuore batteva sempre più ansioso. Fra pochi attimi saremmo stati dentro. Lei avrebbe potuto scappare, correre a chiudersi nella sua stanza, mettere fine a tutto. E io non potevo fare niente. Ripetere l’invito per la cena mi sembrava sbagliato. Non sapevo che altro aggiungere sull’argomento.

Stavamo salendo i ripidi gradini della veranda. Le mie gambe erano di piombo, e quando ho aperto la porta per Elise, mi è parso che pesasse una tonnellata. Poi siamo entrati, e ci siamo fermati. Oppure mi sono fermato io e ho costretto lei a fare lo stesso; semplicemente non ricordo. Ricordo solo che per la prima volta stavo guardando, in piena luce, il volto di Elise McKenna.

Le sue fotografie mentono. Lei è molto più adorabile di quanto dicano le immagini. Elencare i particolari a uno a uno non potrà mai trasmettere la magia della loro combinazione. Voglio far notare, comunque, che i suoi occhi sono di un verde tendente al grigio, gli zigomi alti e delicati, il naso perfetto, le labbra piene e rosse senza bisogno di trucco, la carnagione dello stesso colore di fiori rosa chiaro su cui si rifletta la luce del sole, i capelli color fulvo chiaro, lucidi e foltissimi. E in quel momento, lei mi fissava con un’espressione di così aperta curiosità che quasi sono stato tentato di dirle, d’impulso, che la amavo.

Sono convinto che in quei secondi, in quel corridoio muto, noi due ci siamo fissati dalle opposte rive di un abisso di settantacinque anni. Le persone di epoche diverse hanno aspetti diversi, penso; hanno l’aspetto tipico del proprio periodo. Credo che lei lo abbia letto sul mio volto, come io l’ho letto sul suo. È qualcosa di intangibile, ovviamente, e non si può limitare a singoli dettagli. Vorrei poter dare una descrizione più precisa, ma non ci riesco. So solo che, a mio giudizio, lei ha intuito il 1971 nella mia presenza, come io ho intuito il 1896 nella sua.

Tuttavia, non ero certo che questo spiegasse perché lei continuasse a scrutarmi con una franchezza che era senza dubbio anomala per una donna del suo tempo, e del suo stato sociale. Non esagero. Mi fissava come incapace di distogliere lo sguardo; e naturalmente, io la fissavo nello stesso modo. Siamo letteralmente rimasti a guardarci negli occhi per quello che deve essere stato più di un minuto, rapiti l’uno dall’altra. Io avrei voluto prenderla tra le braccia e baciarla, stringerla forte, dirle che la amavo. Sono rimasto immobile, pietrificato. Forse per colpa dell’abisso di tempo fra noi due, o forse per una barriera emotiva di più facile comprensione. Ma di qualunque cosa si trattasse, nell’intero mondo esistevamo solo Elise McKenna e io, immobili, intenti a guardarci.

Di nuovo, è stata lei la prima a parlare. — Richard — ha detto, e io ho avuto la sensazione che non volesse tanto pronunciare il mio nome quanto assaporare la mia identità, scoprire se la sua mente la trovava gradevole.

Considerato ciò che era appena accaduto, mi è parso strano che lei distogliesse all’improvviso gli occhi e le sue guance avvampassero. Solo in seguito ho capito che la sua curiosità era stata annullata dal ricordo delle buone maniere. — Devo andare — ha detto.

Ha fatto per allontanarsi da me. Il mio cuore ha tremato. — No — ho detto. Lei si è girata subito. Era quasi spaventata. — No. La prego. — Mi tremava la voce. — La prego, non mi lasci. “Io devo stare con lei.”

Di nuovo quell’espressione di franchezza aperta, vulnerabile. Stava cercando, con tutta se stessa, di capire.

— La prego. Ceni con me — ho detto.

Lei ha mosso le labbra, ma senza emettere suoni. — Devo cambiarmi — ha detto poi.

— Non posso… Non potrei… — Mi sono interrotto: dubbi di grammatica in un momento del genere? Pazzesco. Avrei voluto ridere e piangere al tempo stesso. — Elise, la prego… Mi conceda di aspettarla. Non ha un… un salotto o qualcosa del genere? — Ormai imploravo. — “Elise…”

Lei ha emesso un suono che, se la mia interpretazione è corretta, mi diceva: — Ma perché continuo a parlare con te? Perché non strillo e scappo via? — Tutto racchiuso in quel breve suono: l’incredulità e l’esasperazione con se stessa per il fatto di dare ascolto ai vaneggiamenti di un pazzo.

— So che non è facile capirmi — ho detto. — So di comportarmi in maniera strana, so di averla turbata sulla spiaggia. Mentre non so perché lei sia stata tanto gentile con me. Perché non mi abbia gettato la sabbia negli occhi e non sia fuggita. Non…

La mia voce si è spenta. La bellezza del suo volto, così solenne, sarebbe bastata a farmi piangere. Quando sorrideva, la radiosità del suo viso riusciva a fermarmi il cuore. La stavo guardando, ne sono certo, con servile adorazione. Il suo sorriso era così squisito, così dolce nella sua comprensione e nel suo stupore.

— La prego — sono riuscito a continuare. — Le prometto che mi comporterò bene. Resterò tranquillo su una sedia e… — Mi sono interrotto. Non sapevo come completare la frase. Mi venivano in mente tre sole parole. Erano assurde, ma le ho dette lo stesso. — …Farò il bravo.

La sua espressione è mutata. Ho intuito un flusso di empatia. Non ho capito che forma stesse assumendo quell’empatia; poteva anche trattarsi solo di compassione per la sofferenza di un altro essere umano. So semplicemente che in quell’attimo lei ha reagito alle mie invocazioni.

L’espressione è svanita in un lampo, ma ormai io avevo la certezza di averla raggiunta, almeno per il presente. Ha sospirato come avevo fatto io sulla spiaggia: un sospiro di amara sconfitta. — Va bene — ha detto.

Riconoscente, timoroso di parlare e di farle cambiare idea, ho percorso il corridoio al suo fianco, l’ho seguita fino all’ingresso del salotto comune che si apriva sulle camere da letto. Con un sussulto, ho temuto che lei potesse avere pensato che alludessi a quella stanza. La tensione è svanita quando abbiamo attraversato il salotto senza che lei dicesse niente. Poi si è fermata davanti alla sua porta. Io ho atteso mentre cercava la chiave in borsetta, la trovava, e la inseriva nella serratura.

I miei occhi erano puntati sulla chiave. Vedendo che lei non la girava, ho sollevato la testa e scoperto che lei mi stava fissando. Come posso definire quello sguardo? Forse stava cercando di prendere le distanze da tutto ciò che era successo. Dopo tutto, chi ero io, se non un maschio sconosciuto che tentava di entrare nel suo alloggio? Comunque, ho avuto l’impressione che i suoi pensieri seguissero quella linea, e le ho detto: — Resterò seduto ad aspettare, glielo prometto.