Lei ha sospirato un’altra volta, scoraggiata. — È… — senza completare la frase, ha girato la chiave nella serratura e ha aperto la porta. Non mi era difficile immaginare cosa fosse stata sul punto di dire: “È una follia.” E lo era; molto più di quanto sapesse lei.
La stanza era immersa in una luce fioca. Mi sono tirato in disparte mentre lei chiudeva la porta. Il caminetto era spento, ho notato, e ho udito il sibilo del vapore uscire da un radiatore che non vedevo. Ho guardato la statuetta di marmo bianco sulla mensola del camino, una ninfa con una cornucopia traboccante di fiori. Al di là di quello, la mia percezione della stanza è stata generica: tappeti spessi, mobili bianchi, uno specchio con la cornice dorata alla parete, uno scrittoio vicino alla finestra.
Tutto ciò, solo uno sfondo insignificante per la sua aggraziata figura che attraversava la stanza, sbottonando il soprabito. — Può aspettare qui — ha detto, col tono di chi ha accettato la follia delle proprie azioni ma non ne è eccessivamente contento.
— Elise — ho detto io.
Quando si è voltata, è stato uno shock scoprire che, sotto il soprabito, indossava la camicetta che avevo visto in Celebri attori e attrici: bianca, con un cravattino nero tenuto fermo da un nastro che girava sotto il colletto. E anche il soprabito, mi sono reso conto, era lo stesso: un doppiopetto nero, con lunghi risvolti bianchi che arrivavano al pavimento.
— Cosa c’è, signor Collier? — mi ha chiesto.
Sono certo di essere trasalito. — Non mi chiami in quel modo — ho risposto. Intuivo che quell’espressione, per lei, era stata una forma di difesa contro la mia presenza nella sua stanza, un modo per erigere fra noi due una barriera di decenza. Ma mi intimidiva lo stesso.
— E come dovrei chiamarla, allora?
— Richard. E io… — Ho tirato il fiato. — La posso chiamare Elise, vero? Proprio non posso chiamarla “signorina McKenna”. Non posso.
Lei mi ha studiato in silenzio. Stavano tornando i suoi sospetti? La cosa non mi avrebbe sorpreso. Qualunque analisi logica di quel momento doveva necessariamente portare a nuovi sospetti.
Però, la sua espressione era dolcissima. — Non so cosa dire — mi ha confidato.
— Lo capisco.
Un sorriso triste ha danzato per un attimo sulle sue labbra. — Davvero? — ha ribattuto; e si è voltata, quasi con sollievo, credo. Senza dubbio, le avrebbe fatto piacere restare sola per un po’, riflettere sull’enigma in pace e tranquillità.
Mentre raggiungeva la porta della stanza attigua, si è girata un attimo a guardare; pensava che potessi seguirla? Ho visto un ciuffo di capelli castani scenderle giù per la nuca, e, senza avvisaglie, ho provato un’ondata di amore per lei. Una delle mie paure, come minimo, si era dimostrata priva di basi. Trovarmi in sua presenza non aveva affatto sminuito ciò che sentivo per lei. Il mio amore era più forte che mai.
Poi, ancora una volta, mi sono accorto di avere la gola terribilmente arida. “Come potrebbe succedere a un medium dopo un’esperienza paranormale” ho pensato. — Elise?
Lei si è fermata davanti alla porta della camera da letto, si è voltata.
— Potrei avere un po’ d’acqua? — ho chiesto.
Di nuovo, quel piccolo gemito fatto di divertimento e stupore. Riuscivo sempre a coglierla alla sprovvista. Ha annuito ed è uscita dalla stanza.
Io ho attraversato il salotto, mi sono arrestato davanti alla porta aperta. Nella camera da letto vedevo un grande letto matrimoniale, laccato di bianco, incassato in una nicchia delimitata da tende socchiuse. Sulla destra, un comodino bianco con una lampada in metallo; pietre rosse erano incastonate nel paralume.
Ho sentito Elise che faceva scendere l’acqua. Allora aveva anche un suo bagno privato. Mi sono accorto che mi tremavano le gambe. Dovevo sedermi, al più presto.
Elise è tornata, porgendomi il bicchiere. Le nostre dita si sono incontrate per un istante. — Grazie — le ho detto.
Lei mi ha fissato negli occhi con una supplica così intensa da lasciarmi stupefatto. Era come se stesse mettendo in discussione la mia esistenza, se stessa e la risposta a quella esistenza, e non sapesse comprendere nulla.
Poi si è girata, mormorando: — Mi scusi. — Mi sono innervosito quando ha chiuso la porta della camera da letto. Ho atteso di sentire il rumore della chiave nella serratura; mi sono lentamente rilassato scoprendo che quel suono non si produceva. — Elise? — ho chiamato.
Silenzio. Alla fine, lei ha risposto: — Sì?
— Non vorrà… arrampicarsi sulla finestra e scappare, vero?
“Cosa starà facendo?” mi sono chiesto. “Sorride? Aggrotta la fronte?” O aveva davvero in mente di fuggire? Non volevo crederlo, ma in quel momento le mie erano le paure di un bambino, irrazionali.
— Dovrei farlo? — ha ribattuto dopo un po’.
— No. Non sono un criminale. Sono venuto qui solo per… — “Amarti” ha terminato la mia mente. — …Per stare con lei.
Silenzio totale. Chissà se era ancora dietro la porta o se aveva cominciato a cambiarsi d’abito. Ho fissato la porta in ansiosa attesa, divorato dal desiderio di aprirla per essere di nuovo con lei. Cominciavo già a temere che il nostro incontro fosse solo una mia illusione. Per poco non ho ripetuto il suo nome, ma mi sono costretto a non farlo. Dovevo lasciarle il tempo per riflettere.
Guardandomi attorno nella stanza, che faceva parte in maniera tanto chiara del 1896, mi sono sentito un poco meglio. Sullo scrittoio c’era un calendario da tavolo in argento. Nelle tre finestrelle, in caratteri Old English, era stampato “Giovedì, Novembre” e “19.” La mancanza dell’anno mi ha turbato, anche se capivo bene che un calendario tanto costoso non poteva venire utilizzato per un solo anno.
Accorgendomi solo allora di avere ancora in mano il bicchiere, ho bevuto l’acqua in un unico sorso. È stato un sollievo sentirla scendere nella bocca e nella gola riarse, anche se aveva un sapore salmastro. “Sto bevendo l’acqua del 1896” ho pensato, e ho trovato l’idea eccitante, perché si trattava della prima cosa che il mio fisico ingerisse in quell’anno; a parte l’aria che respiravo.
Avevo ancora sete, ma non mi andava di chiedere altra acqua a Elise. Meglio sedermi a riposare. Raggiunta una poltroncina, mi sono lasciato cadere con un gemito e ho appoggiato il bicchiere su un tavolo vicino.
I miei occhi si sono chiusi immediatamente, facendomi sobbalzare. Non dovevo addormentarmi; potevo perdere il contatto! Ho scosso la testa, poi ho allungato la mano e afferrato il bicchiere. Sul fondo c’era ancora qualche goccia d’acqua. L’ho versata sul palmo sinistro, mi sono passato la mano sul viso, e ho rimesso giù il bicchiere.
Ho cercato di restare sveglio concentrandomi sui particolari della stanza. Ho fissato il centrino a merletto appuntato allo schienale di una sedia. Ho guardato il tavolo vicino alla parete, contato il numero dei fiori intarsiati sulle sue gambe. Ho scrutato l’orologio sul tavolo. Erano quasi le sei; “del tempo 1” ho pensato. Ho studiato il lampadario a sei braccia che pendeva dal soffitto. Ho contato e ricontato tutti i suoi fregi di cristallo. “L’importante è non dormire” ho ordinato a me stesso. “Non devi dormire.”
Ho fissato il calendario sullo scrittoio. Mi sono accorto che faceva parte di un completo da scrivania: un vassoio d’argento su cui si trovavano due boccettini d’inchiostro, una penna d’argento, e il calendario. “Non è necessario che riporti l’anno” ho pensato. “So benissimo dove sono.”
Ero nel 1896 e avevo raggiunto Elise.
Mi sono svegliato con un gemito. Mi sono guardato attorno in dolorante confusione. “Dov’ero?”
Poi la porta della camera da letto si è aperta, ed Elise mi ha guardato, allarmata. Senza riflettere, le ho teso la destra. Tremava.