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Lei ha esitato, poi si è fatta avanti e mi ha preso la mano. Devo esserle parso patetico. La sensazione della sua mano calda nella mia è stata come una trasfusione di sangue. Ho visto i suoi lineamenti irrigidirsi e ho allentato la stretta. — Mi spiace — ho detto. Quasi non riuscivo a parlare.

L’ho scrutata con occhi avidi. Si era messa un abito di morbida saia color vinaccia, con un colletto alto, orlato di seta nera. Le lunghe maniche, anziché essere larghe, fasciavano le braccia. La frangia e i lati dei suoi capelli erano fermati da monili in guscio di tartaruga.

Lei mi ha restituito lo sguardo in silenzio, con la solita espressione interrogativa. Ha cercato una risposta sul mio viso.

Alla fine, ha abbassato gli occhi. — Mi scusi — ha detto. — La sto fissando un’altra volta.

— Anch’io la fissavo.

È tornata a guardarmi. — È solo che non capisco — ha detto, in tono calmo, pacato.

Con un sussulto, ha strappato la mano dalla mia quando qualcuno ha bussato alla porta. Tutti e due abbiamo guardato verso il lato opposto della stanza, poi io ho riportato gli occhi su di lei. La sua espressione era un insieme di irrequietezza e… cosa? La prima parola che mi viene alla mente è “cautela”, come se lei stesse già pensando a cosa dire per spiegare la mia presenza. Ho sperato che avesse pronta una giustificazione; io non ne avevo. — Mi spiace. Non vorrei comprometterla — ho detto.

Lei mi ha scoccato un’occhiata veloce, e io ho visto il sospetto sul suo viso. L’avevo di nuovo, senza volere, portata a dubitare di me? Una situazione compromettente, imbarazzante… Mio Dio, magari un “ricatto?” L’idea mi ha atterrito.

— Mi scusi — ha detto Elise. E poi, incredibilmente, si è messa a spazzolarmi i capelli. Non mi ero accorto della spazzola che stringeva nella sinistra. L’ho fissata stupefatto, finché non mi sono reso conto che il vento o il sonno dovevano avermi scompigliato i capelli. Elise stava cercando di rendermi più presentabile alla persona che aveva bussato.

Quando si è chinata su me, ho sentito il suo profumo. Ho dovuto usare tutta la mia forza di concentrazione per non sollevare la testa e darle un bacio sulla guancia. Lei mi ha scrutato. Dovevo avere ancora un aspetto disfatto, perché ha sussurrato: — Si sente bene?

Sapevo che era un errore, ma non sono riuscito a resistere. Con un altro sussurro, le ho risposto: — Io ti amo.

La spazzola ha sussultato nella sua mano, e il suo viso ha assunto un’espressione tesa. Prima che potessi scusarmi, i colpi alla porta si sono ripetuti, e una voce ha chiamato: — Elise? — Ho rabbrividito. Era la voce di una donna non più giovanissima. “Ci siamo” ho pensato.

Elise si era bruscamente raddrizzata al mio sussurro. Adesso si stava avviando alla porta. — Mi spiace — ho balbettato. Lei si è girata a guardarmi, ma non ha ribattuto. Io ho deglutito (avevo un estremo bisogno di altra acqua), mi sono tirato su sulla poltroncina, poi mi sono alzato. Sapevo di dover essere in piedi per l’ingresso della signora McKenna.

Mi sono alzato troppo in fretta e ho perso l’equilibrio. Sono quasi caduto, prima di afferrare la spalliera della poltroncina. Ho guardato Elise: si era fermata davanti alla porta, mi scrutava ansiosa. Che momento terribile deve essere stato per lei.

Ho annuito. — Va tutto bene.

Le sue labbra si sono socchiuse in un respiro; o, più probabilmente, in una preghiera muta. Girandosi verso la porta, Elise si è ricomposta, poi ha afferrato il pomolo.

La signora McKenna è entrata, ha fatto per dire qualcosa alla figlia, ma si è interrotta immediatamente. Con stupefatto dispiacere, ha scoperto la mia presenza all’altro lato della stanza. Cosa stava pensando? Una diga di ricordi si è aperta nel mio cervello. Sino a quel giorno, al di là dei semplici scambi occasionali, sua figlia non aveva mai avuto a che fare con uomini. Il suo rapporto più intimo era quello con Robinson, ed era strettamente limitato al lavoro.

Imbattersi in un perfetto sconosciuto nella camera d’hotel di Elise deve essere stato elettrizzante, per la signora McKenna. Ho notato che cercava di controllarsi, ma lo shock era enorme.

La voce di Elise era perfettamente controllata: la voce di un’attrice navigata che recita una battuta. Non avessi saputo come stavano le cose, avrei giurato che fosse calmissima. — Mamma, ti presento il signor Collier — ha detto. Buone maniere. Sobrietà. Follia.

Non saprò mai cosa mi abbia dato la forza di attraversare la stanza, prendere nella mia la destra della signora McKenna, stringerla dolcemente, fare un inchino, e sorridere. — Come sta?

— Piacere — ha risposto lei, in tono remoto. È stato, a un tempo, un ammettere la mia esistenza e un metterne in dubbio la validità. È strano, ma quel suo tono rigido mi ha aiutato a fare il primo passo verso la normalizzazione della situazione. Nonostante il nervosismo, il suo atteggiamento freddo e la chiara aria di disapprovazione mi hanno permesso di vedere, dietro la posa aristocratica, l’attrice non del tutto capace di gestire nel migliore dei modi un incontro simile.

Non che stesse coscientemente recitando a mio beneficio, ma l’effetto era abbastanza simile. Non dubito che la mia presenza lì la abbia davvero offesa, però il suo atteggiamento mi è parso eccessivo rispetto a ciò che potevo intuire di lei come persona. In sostanza, stava cercando di recitare al di là della propria natura. E si vedevano le crepe. La signora veniva dall’ambiente rozzo, ruvido, del teatro rurale del diciannovesimo secolo; non era una grande dame, per quanto si sforzasse di farmelo credere. La sua mossa successiva sarebbe stata girarsi verso la figlia, la fronte aggrottata, in attesa di una spiegazione. E così, puntualmente, ha fatto. A dispetto del nervosismo, ho avvertito un fremito di divertimento.

— Il signor Collier è ospite dell’hotel. — Elise le ha fornito l’attesa spiegazione. — È qui per assistere alla rappresentazione.

— Sì? — La signora McKenna mi ha scrutato freddamente. Sapevo che avrebbe voluto chiedere: “Ma chi è, e cosa ci fa qui, nella tua stanza?” Però tanta sfacciataggine non era accettabile. Per la prima volta, mi sono sentito grato della reticenza sociale del 1896.

Il silenzio mi ha detto che dovevo aiutare Elise. L’avevo lasciata andare alla deriva, aspettando che fosse lei a chiarire, da sola, la mia presenza. Non ci sarebbe mai riuscita, senza la mia assistenza. — Sua figlia e io ci siamo conosciuti a New York — ho mentito, non so con quanto successo. Poi mi è venuta in soccorso un’ispirazione improvvisa. — Dopo la rappresentazione di Christopher, Junior — ho aggiunto. — Ho lasciato Los Angeles per un viaggio d’affari e ho deciso di fermarmi all’hotel per assistere alla recita di domani sera. — “Un’ottima storia Collier” ho pensato. “Ipocrisia sopraffina.”

— Vedo — ha ribattuto la signora McKenna, gelida. Non vedeva affatto. Qualunque fosse la mia storia, non avevo ragione di trovarmi nella camera d’hotel di sua figlia. — Di cosa si occupa? — ha chiesto.

Non mi aspettavo quella domanda. Sono rimasto a guardarla a bocca aperta, chiaramente impacciato. Quando ho deciso che la verità era più semplice di una menzogna, senza dubbio lei ormai pensava che la mia risposta sarebbe stata una bugia. — Sono uno scrittore — ho detto. Mi si sono contratte le viscere. Che Iddio mi aiutasse, se lei si fosse spinta a domandare cosa scrivevo.

Non lo ha fatto. Sono certo che non le interessasse per nulla chi o cosa fossi; voleva solo che me ne andassi dalla stanza di sua figlia. Il che è risultato implicito nella sua voce, quando si è girata verso Elise e ha borbottato: — Allora, mia cara? — (“Non sarebbe ora di congedare questo ruffiano?”)

Ho amato Elise ancora di più vedendo che non mi girava le spalle, anche se avrebbe avuto ogni motivo per farlo. Sollevando il mento in un atteggiamento regale che, in un solo istante, mi ha detto più cose sulle sue innate doti d’attrice di tutti i libri che avevo letto, ha ribattuto: — Ho invitato il signor Collier a cenare con noi, mamma.