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Mentre le seguivo sul sentiero, mi sono chiesto distrattamente perché non svoltassimo verso la veranda sul retro, lungo lo stesso percorso per l’atrio che avevo fatto in compagnia del vecchio fattorino. Adesso penso (è solo un’ipotesi, ma che altra spiegazione potrebbe esserci?) che il fattorino mi abbia fatto fare quella strada perché era la più lunga, e lui non nutriva il minimo desiderio di tornare all’ingresso, dal signor Rollins.

Oltre al dispiacere che provavo nel trovarmi separato da Elise, c’era il rinnovato nervosismo all’idea di dirigermi verso l’atrio. “Discesa nel Maelstrom, capitolo due” ho pensato. Venivo di nuovo trascinato verso quel faticoso nucleo del 1896. Ho tentato di erigere una barriera mentale, ma mi sono reso conto che, una volta esposto alla virulenta energia di quel periodo, sarei stato praticamente privo di difese.

L’atrio era affollato. L’ho notato mentre, facendomi forza, aprivo la porta per Elise e sua madre. Nello stesso istante ho udito la musica di un piccolo complesso d’archi che suonava sull’ammezzato, e il caos di una molteplicità di voci. Ma, piacevolmente sorpreso, ho constatato che l’effetto su me era minimo, a paragone di ciò che era successo prima. Possibile che quel modesto sonnellino avesse risolto il problema?

Sorpresa e piacere sono svaniti scoprendo che la cena sarebbe davvero stata complicata dalla presenza di William Fawcett Robinson. L’ho scrutato con apprensione mentre attraversavamo l’atrio. Elise si era fermata appena entrata, e adesso camminavo al suo fianco.

Robinson è alto sul metro e settantacinque, con una corporatura robusta. Stranamente, in tutte le foto che avevo visto mi era sempre sfuggita la notevole somiglianza con un Sergej Rachmaninov dalla barba scura, con tratti solenni e spigolosi; sul suo volto non c’era la minima traccia di humour. I suoi grandi occhi scuri erano puntati su di me con freddo dispiacere, e l’aria di repulsione era identica a quella della signora McKenna. Indossava un completo nero con panciotto, scarpe nere, farfallino nero; dal panciotto sporgeva la catena di un orologio. I capelli neri, a differenza di Rachmaninov, erano talmente radi che sulla fronte ne scendeva solo un modesto ciuffo, meticolosamente pettinato. Come in Rachmaninov, gli occhi erano grandi. A differenza di Rachmaninov, dubito che quell’uomo abbia nelle vene una sola goccia di musica.

Ho lanciato un’occhiata a Elise mentre raggiungevamo il suo impresario. — William, ti presento il signor Collier — ha detto lei, con voce perfettamente controllata. Mi sono quasi convinto che si fosse ripresa dal turbamento iniziale, e che adesso la mia presenza non le facesse più il minimo effetto.

Dubbi e perplessità non si sono infiltrati nella stretta di mano di Robinson: mi ha martoriato la destra parecchio più del necessario. — Collier — ha ringhiato. Non trovo un verbo migliore per descrivere la sua voce gutturale, sgradevole.

— Signor Robinson… — ho detto io, ritraendo le dita stritolate. “Appena tornerà tutta la mia forza, Bill” ho pensato “stringerò forte anch’io.”

Se la signora McKenna non aveva trovato il coraggio di escludermi dai loro piani per la cena, Robinson non ha avuto incertezze. — Adesso dovrà scusarci — mi ha informato, e si è girato verso Elise e la madre.

— Il signor Collier cena con noi — ha detto Elise. Di nuovo, mi ha colpito il tono risoluto della voce. Rendeva ancora più arduo capire perché mi avesse accettato; era ovvio che se avesse voluto liberarsi di me, lo avrebbe potuto fare all’istante. E io ho deciso che non le era mai passato per la mente di urlare o fuggire. Non era nel suo stile, semplicemente.

Come accettare le sconfitte non era nello stile di Robinson. — Credo che il nostro tavolo sia preparato per tre — ha ricordato a Elise.

— Possono aggiungere un altro coperto — ha ribattuto lei. Intuivo che cominciava a sentirsi a disagio, e ho sperato che essere costretta in continuazione a difendermi non le facesse cambiare atteggiamento. Naturalmente, sarei stato il primo ad andarmene, se il bisogno di restare con lei non fosse stato tanto forte.

Invece, sono rimasto a fissare Robinson quando ha aggiunto in tono secco: — Sono certo che il signor Collier ha altri progetti. — “No” avrei voluto dire, ma ho preferito il silenzio. Con un sorriso, ho preso Elise per il braccio e l’ho accompagnata verso la sala della Corona. Mentre ci allontanavamo, ho sentito Robinson borbottare: — È questa la spiegazione delle prove di oggi?

— Mi spiace, Elise — ho mormorato. — Mi rendo conto di essere invadente, ma devo stare con lei. Abbia pazienza.

Lei non ha reagito, ma i muscoli del suo braccio erano tesi. Ci siamo avvicinati a un dandy coi baffi, in abito da cerimonia, che ci sorrideva a denti sgranati. Era realistico come un manichino in una vetrina. Anche la sua voce era un sussurro artificiale: — Buonasera, signorina McKenna.

— Buonasera — ha risposto lei. Io non l’ho guardata. Non volevo vedere se avesse contraccambiato quel sorriso atroce. — Il signor Collier cenerà con noi.

— Ma sì, “certo” — ha ribattuto il maître, apparentemente deliziato. Un altro sorriso. — Sarà un “piacere” signor Collier. — Girando sui tacchi come un ballerino, si è avviato nella sala da pranzo, tallonato da Elise e me.

Dall’atrio, avevo lanciato soltanto una semplice occhiata alla sala della Corona. A dire il vero, non ero entrato lì nemmeno nel 1971. È incredibilmente grande, più di quarantacinque metri di lunghezza e diciotto di profondità; probabilmente ha la stessa cubatura di cinque case di discrete dimensioni. Il soffitto in pino nero è alto per lo meno nove metri; l’ampia struttura ad arco lo fa somigliare allo scafo capovolto di una nave. Dall’immane pavimento non si alza una sola colonna, un solo pilastro.

Provate a immaginare quello spazio gigantesco colmo di uomini e donne che mangiano, parlano, “esistono:” una sterminata folla di esseri del 1896 che mi avrebbe circondato. Nonostante il notevole miglioramento delle mie condizioni, ho cominciato a sentirmi un po’ stordito mentre il maître ci guidava in quel vortice di attività. Non c’erano tappeti, e ogni suono rimbombava assordante alle mie orecchie: la conversazione di massa, il tintinnio enorme dell’argenteria sui piatti, i passi pesanti dell’esercito di camerieri in marcia sul pavimento. Apparentemente, nessun altro era disturbato dal frastuono, ma quel tempo mi dava l’impressione di essere più fisico, concreto, di quello che avevo lasciato: più rumori, più movimento, maggiore coinvolgimento nei meccanismi basilari dell’esistenza.

Ho guardato Elise. Aveva girato la testa e stava salutando diverse persone sedute a tavola. Quasi tutti mi scrutavano con aperta curiosità. Solo più tardi ho capito che facevano parte della sua compagnia. E non c’era da meravigliarsi se mi fissavano: probabilmente, non avevano mai visto Elise in compagnia di un uomo sconosciuto.

Il maître deve avere fatto un cenno a qualcuno, perché quando abbiamo raggiunto un tavolo circolare sotto una finestra era già pronta una quarta sedia, e un cameriere stava sistemando le mie posate sulla tovaglia color panna. Il maître ha scostato la sedia per Elise, e lei si è accomodata con la grazia dell’attrice che sa dominare ogni movimento alla perfezione.

Girandomi, i miei occhi hanno incontrato il duo di anime in pena. Ho scostato una sedia per la signora McKenna. Ma dovevo essere diventato invisibile. La signora ha aspettato che il maître spostasse un’altra sedia, poi si è accomodata. Io ho finto di non accorgermene, e mi sono sistemato sulla sedia di cui stringevo ancora lo schienale. La bocca di Elise si è piegata in una smorfia alla scortesia della madre. Il maître ha mormorato qualcosa a Robinson, che si è seduto a sua volta; e ci sono stati portati i menù.