Adesso avevo sotto i piedi il terreno solido. Con la continua assistenza di Elise, ho percorso un’altra breve rampa di scale che arrivava a un declivio largo un paio di metri quadrati. Le fronde delle palme frusciavano nel vento. Davanti a noi, la risacca rimbombava minacciosa, vicinanza inquietante. La luna era oscurata da nubi, e io quasi non vedevo le onde che correvano a riva; però avevo la netta impressione che ne saremmo stati colpiti nel giro di pochi istanti.
Abbiamo sceso altri gradini, ci siamo avviati su un sentiero. Ormai convinto che la schiuma bianca, se non le onde stesse, dovessero investirci da un momento all’altro, ho detto in tono preoccupato: — Si rovinerà il vestito.
— No — si è limitata a rispondere lei.
Poco dopo, sono riuscito a vedere che il mare era più lontano di quanto credessi. Il bordo del sentiero sovrastava di un paio di metri una roccia frangiflutti. Vicino al bordo c’era una panchina, su cui Elise mi ha invitato a sedere. Io ho obbedito. Lei ha esitato, poi si è accomodata al mio fianco, mi ha detto di inspirare a pieni polmoni.
Rischiando ulteriori sensi di colpa, le ho appoggiato la testa sulla spalla. “Mascalzone” ho pensato, senza troppo divertimento. Però non avevo rimorsi. Tutte le ore e ore di sforzi per giungere a quel momento mi sono ripassate nella mente. Me l’ero guadagnato, e non ci avrei rinunciato per il semplice desiderio di una confessione onesta. Non subito, per lo meno.
Lei si era irrigidita al contatto. Poco per volta, ho sentito la sua tensione allentarsi. — Sta meglio? — mi ha chiesto.
— Sì. Grazie. — Forse potevo uscire dagli abissi delle mie bugie a stadi, invece che con un’unica confessione che l’avrebbe senz’altro irritata. — Elise?
— Sì?
— Mi dica una cosa.
Lei ha aspettato.
— Perché è così gentile con me? Non ho fatto altro che affliggerla dal momento che ci siamo incontrati. Non ho il minimo diritto di aspettarmi tanta dolcezza. “Non smetta di essere gentile” — ho aggiunto subito. — Per amor di Dio, non smetta… Ma “perché?”
Non ha risposto, e io ho cominciato a domandarmi se davvero potesse darmi una risposta, o se non le avessi reso più difficile la situazione.
È trascorso così tanto tempo che quando lei si è decisa a parlare, io mi ero ormai convinto che non lo avrebbe più fatto. — Le dirò una cosa — ha esordito — e nient’altro. La prego di non chiedermi una spiegazione, perché non gliela posso dare.
Ho ripreso ad attendere. Il battito del mio cuore era una pulsazione possente in petto.
— Io la aspettavo — ha detto lei.
Ho sobbalzato in maniera tanto brusca da farla boccheggiare. — Cosa c’è? — ha domandato.
Non riuscivo a parlare. Senza riflettere, ho alzato la testa fino a che la mia guancia ha sfiorato la sua. Lei ha fatto per scostarsi; poi, al mio gemito, si è fermata. E io sono quasi arrivato a pensare che se fossi morto in quell’istante, con la mia guancia contro la sua, con le sue parole incise nella mente, forse sarei morto contento.
— Richard? — ha chiesto lei alla fine.
— Sì? — Ho scostato la testa, l’ho girata per guardare Elise. Lei stava scrutando l’oceano, seria.
— Prima, quando eravamo sulla spiaggia, lei ha detto… “Non lasciare che lo perda.” Cosa significava?
L’ho fissata in disperato silenzio. Cosa dovevo rispondere? Non potevo dirle la verità; ormai lo sapevo al di là di ogni dubbio. “Da quale luogo sei venuto a me?” ho pensato. “A quale luogo…?”
No. Ho scacciato il ricordo. Lei non avrebbe mai scritto quella poesia. Il suo giardiniere non avrebbe mai trovato quel pezzo di carta. — Mi permetta di ripetere ciò che ha detto lei — ho risposto. — Non mi chieda una spiegazione. Non ancora. — Ho visto contrarsi il suo volto, e mi sono affrettato ad aggiungere: — Non è niente di terribile. È solo che… Non è ancora arrivato il momento di spiegarle.
Lei ha continuato a fissare l’oceano. Ha preso a muovere la testa avanti e indietro, troppo lentamente perché potesse trattarsi di un cenno di diniego, anche se la sensazione che io ricevevo era, senza dubbio, negativa. — Cosa c’è? — ho chiesto.
Il suono emesso dalle sue labbra era un insieme di sofferenza e cupo divertimento. — È tutto così folle — ha detto, come riflettendo ad alta voce. — Me ne sto seduta qui con un perfetto sconosciuto, e non so perché. — Si è voltata verso me. — Se solo lei potesse capire — ha detto.
— Io capisco.
— Non è possibile.
— Eppure capisco — ho ribattuto. — “Capisco” Elise.
Lei ha girato di nuovo la testa, mormorando: — No.
— Allora passi un po’ di tempo con me. Impari a conoscermi e poi decida…
Mi sono fermato. Stavo per aggiungere: — …Se può volermi bene. — Non le avrei offerto scelta: “doveva” amarmi. Non c’era altra possibilità. — Trascorra tutto il tempo che può con me — ho concluso.
Lei è rimasta zitta a lungo, guardando l’oceano. Poi ha detto: — Adesso devo rientrare.
— Certo. — Mi sono alzato e l’ho aiutata a tirarsi su. Avrei voluto abbracciarla, ma ho soffocato il desiderio. “Fai un passo alla volta” mi sono detto; “non esagerare.” Voltandomi, ho visto le luci dell’hotel, il grande tetto ad assicelle rosse, la bandiera che sventolava alta sopra la torre della sala da ballo, e ho provato un moto d’affetto per quella meravigliosa struttura che mi aveva permesso di raggiungere Elise. Le ho offerto il braccio e ci siamo incamminati.
— E adesso devo fare una confessione — le ho detto, mentre affrontavamo la prima rampa di scale.
Lei si è fermata, staccando la mano dal mio braccio.
— Continui a camminare — le ho detto. — Mi stringa il braccio. Guardi diritto in avanti e si prepari a terribili rivelazioni. — Stavo tentando di mettere sullo scherzo ciò che avevo da dire, nonostante il netto senso di trepidazione.
— Di cosa si tratta? — ha ribattuto lei, sospettosa, senza seguire una sola delle mie istruzioni.
Ho tirato il fiato. — Non mi sentivo male.
— Non…
— Le ho detto che non stavo bene solo per poterla avere per me.
Cosa significava la sua espressione? Condiscendenza? Stupore? Disgusto? — Mi ha “ingannata?” — ha domandato.
— Sì.
— Ma è orribile.
Mi è parso che il suo tono non riflettesse l’asprezza delle parole, e mi sono sentito spinto a rispondere: — Sì, lo è. E lo rifarei un’altra volta.
Di nuovo, quello sguardo, come se studiando il mio viso lei tentasse di comprendere la mia totalità. Poi, di colpo, si è mossa, ha emesso un sospiro impaziente. È ripartita in direzione dell’hotel, con me al suo fianco. — Credo sia ora di trovarmi una stanza — ho detto io.
Lei mi ha fulminato con lo sguardo. “Dio del cielo, ti sembra disonesto anche questo?” ho pensato. — Non ha una stanza? — ha chiesto.
— Non ho avuto il tempo di prenderla. Mi sono messo a cercarla non appena sono arrivato.
— Allora forse avrà qualche difficoltà. L’hotel è molto affollato.
— Oh — ho mormorato io. Un altro particolare che non avevo preso in considerazione. “Però” mi sono detto, iniettando un senso di fiducia nella mia mente, “deve esserci qualche stanza disponibile.” Dopo tutto, eravamo nella stagione invernale.