Quando siamo entrati, Robinson era in piedi a fianco di una delle colonne, in chiara attesa del nostro ritorno.
— Mi scusi — ha detto Elise, e si è avviata verso l’uomo con aria battagliera. Dalle narici le uscivano fiamme, come no; i libri che avevo letto non si sbagliavano sul suo carattere deciso.
Mi sono chiesto come avrei potuto rivederla, visto che non avevamo preso alcun accordo. Poi ho capito che per prima cosa dovevo trovare una stanza, e mi sono diretto al bureau. Ma come “potevo” avere una stanza? La contraddizione mi turbava. La mia firma sul registro era prevista solo per l’indomani.
La risposta non si è fatta attendere. Rollins, scrutandomi con freddo sdegno, è stato più che lieto di informarmi che non c’erano stanze disponibili. Il giorno dopo, forse.
“Fatalmente domani” sono stato sul punto di ribattere. Invece, l’ho ringraziato e mi sono scostato dal banco. Elise e Robinson erano ancora impegnati in quella che chiaramente non era una discussione amichevole. Ho rallentato, esitato, poi mi sono fermato. “E adesso?” mi sono chiesto. “Passo la notte su una sedia dell’atrio?” Sulle mie labbra ha cominciato a formarsi un sorriso. Magari la gigantesca poltrona del mezzanino. Sarebbe stata una bizzarra soddisfazione, anche se non mi avrebbe facilitato il sonno. Forse potevo chiedere a Elise di concedermi l’uso della sua carrozza ferroviaria privata, per quella notte. Ho respinto subito l’idea. Avevo già fatto abbastanza per risvegliare i suoi sospetti. Non avrei rischiato oltre.
È stato uno shock vederla girarsi col viso contorto in un’espressione d’ira che ha intimidito persino me. Quando il suo sguardo mi ha intercettato, lei ha cambiato direzione e mi ha raggiunto. — Adesso ha una stanza? — Non sono riuscito a capire se il suo fosse un tono di preoccupazione o di sfida.
— No. Sono tutte occupate. Dovrò chiederne una domattina.
Lei mi ha scrutato in silenzio.
— Non si preoccupi, troverò una soluzione — le ho detto.
Non sembrava eccessivamente preoccupata. Il suo viso era ancora duro. Ho sperato fosse solo una conseguenza del litigio con Robinson. — Mi preoccupa di più come rivederla… — ho cominciato, interrompendomi subito quando lei è ripartita in direzione di Robinson. “E adesso?” Voleva ordinargli di tirarmi un pugno sul naso? Diffidente, l’ho guardata fermarsi davanti al suo impresario e dirgli qualcosa. Lui ha scosso la testa, ha lanciato uno sguardo rabbioso nella mia direzione, ha guardato di nuovo lei, e le ha risposto con palese furia. In nome di Dio, cosa gli stava dicendo Elise? La reazione enormemente negativa di Robinson mi ha spinto a credere che gli stesse domandando di aiutarmi.
Lui ha teso la mano di scatto e le ha afferrato il braccio destro. Lei si è liberata con uno strattone, e sul suo viso c’era di nuovo quella singolare aria di imperiosità. Mi ha colmato di meraviglia il fatto che quella donna, capace di tanto furore regale, fosse stata così dolce con me. Se lo avesse voluto, avrebbe potuto sbarazzarsi di me in un istante, quello era ovvio.
Non che Robinson paresse troppo soggiogato dalla sua autorità. Però lei gli teneva testa, e chiaramente aveva in mano le carte migliori; perché lui si è zittito, è rimasto a fissarla accigliato, mentre Elise continuava a parlare. Dopo diversi momenti, lei gli ha voltato le spalle e si è incamminata verso di me. Aveva ancora in volto quell’espressione che mi intimidiva. Adesso avrebbe ordinato a “me” di levarmi di mezzo?
— Nella stanza del signor Robinson c’è un letto in più — mi ha detto. — Per stanotte può dormire lì. Domani dovrà trovarsi un’altra sistemazione.
Avrei voluto rifiutare, dirle che avrei preferito dormire sulla spiaggia piuttosto che trascorrere la notte in compagnia dell’impresario. Però non potevo: sarebbe stato offensivo, quando lei, per l’ennesima volta, mi aveva dato una mano. — Bene — ho detto. — Grazie, Elise.
Per molti secondi mi sono trovato sotto il solito, intenso esame. I suoi occhi scrutavano i miei, e la sua espressione era di tesa incertezza, come se Elise fosse pronta ad accettare una buona ragione per darmi il benservito ma non riuscisse a trovarla. Io non ho detto nulla, consapevole che al momento quella sua sensazione era l’unico elemento a mio favore.
All’improvviso, lei ha mormorato: — Buonanotte — e se n’è andata.
Restare lì, guardarla allontanarsi, deve essere stata l’esperienza più terrificante della mia vita. Ho dovuto affidarmi a ogni risorsa della mia forza di volontà per non rincorrerla, afferrarla per un braccio, implorarla di non lasciarmi. Solo la convinzione che farlo poteva alienarmi del tutto le sue simpatie mi ha trattenuto. Il bisogno di lei era totale. Come un bambino spaventato, sono rimasto immobile, a vedere svanire l’unica persona al mondo che desiderassi.
Non ho sentito i suoi passi; non l’ho visto avvicinarsi. Mi sono accorto della sua presenza solo udendo qualcuno che si schiariva la gola con un suono viscido. Mi sono girato, e avevo di fronte il suo viso di pietra. Gli occhi scuri mi scrutavano, per usare un eufemismo, con odio omicida.
— Sappia immediatamente — mi ha detto — che lo faccio per rispetto alla signorina McKenna e per nessun altro motivo. Spettasse a me decidere, la farei buttare fuori dall’hotel.
Non avrei mai creduto, sino ad allora, che una sua frase mi potesse sembrare buffa. Eppure, nonostante lo strazio per la mancanza di Elise, quel suo commento mi è parso buffo: era vittoriano in una maniera così chiara, così sfacciata. Sono stato costretto a frenare un sorriso.
— “La diverto?” — ha chiesto lui.
Il divertimento ha lasciato il posto all’allarme. Robinson era grosso, anche se non troppo alto. Avevo una decina di centimetri di vantaggio su lui, e mi sentivo infinitamente più forte, ma era meglio non stuzzicarlo. — Non è lei, mi creda — ho detto.
La mia voleva essere una frase di rappacificazione, ma ha avuto l’effetto di un insulto. Probabilmente è stata solo un’illusione ottica, ma mi è sembrato che l’abito di Robinson fosse teso allo spasimo, nella rabbiosa espansione di ogni singolo muscolo del suo corpo.
— Senta… — Cominciavo a perdere la pazienza. — Signor Robinson, non voglio litigare con lei o creare problemi. So che lei pensa… No, mi scusi. “Non so” cosa pensi di me, a parte l’ovvia constatazione che disapprova la mia presenza. Ma per adesso non potremmo stringere una tregua? È l’unica soluzione che possa accettare.
Lui mi ha soppesato lentamente con quei suoi occhi neri, freddi. Poi, socchiudendoli, ha chiesto: — Lei chi è, signore, e qual è il suo gioco?
Un sospiro stanco. — Nessun gioco — ho risposto.
Il suo sorriso era sottile, sprezzante. — Questo lo vedremo — ha commentato — come è certo che le uova sono uova.
“Bella frase” ho pensato, nonostante mi rendessi conto di essere stato minacciato. Un riflesso della mia mente di scrittore.
— Le darò un solo avvertimento, non di più — ha continuato lui. — Non so cosa lei abbia detto alla signorina McKenna per spingerla ad accettarla con tanta credulità. Però si sbaglia, e di molto, se pensa che le sue arti, o quello che sono, mi abbiano conquistato in una qualche maniera, modo o forma.
Sarei stato portato ad applaudire, ma non l’ho fatto. Non ho ribattuto nulla perché sapevo che il signor William Fawcett Robinson doveva sempre avere l’ultima parola. Potevamo restare lì nell’atrio per l’intera notte se non lo avessi capito e non mi fossi comportato di conseguenza. Così gli ho lasciato l’ultima parola. — Adesso possiamo andare nella sua stanza? — ho chiesto.
Il suo viso si è piegato in una smorfia di sdegno. — Possiamo andare — ha risposto.
Ha girato sui tacchi e si è incamminato a passi veloci. Per parecchi istanti non sono riuscito a capire cosa volesse fare. Poi, di colpo, ho compreso che non aveva nessuna intenzione di accompagnarmi. Se non riuscivo a stargli dietro, avrebbe semplicemente detto a Elise che aveva cercato di portarmi alla sua stanza, ma io non lo avevo seguito.