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Mi sono avviato alla massima velocità possibile. “Figlio di puttana” ho pensato. Fossi stato un po’ più dinamico, credo che mi sarei messo a correre e gli avrei tirato un pugno. Nelle condizioni in cui mi trovavo, era già un miracolo non perderlo di vista. Ha cominciato a salire i gradini a due a due, con l’evidente intenzione di distanziarmi, e io ho scoperto che il mio corpo non si era ancora ripreso quanto pensavo.

Ho spesso ringraziato Dio per avere inventato il senso dell’umorismo, ma mai con l’intensità di quei momenti. Non fossi stato capace di apprezzare il lato comico di quell’inseguimento, forse mi sarei afflosciato sul pavimento. Però sono riuscito ad apprezzarlo, nonostante tutto. Devo essere stato uno spettacolo molto buffo mentre correvo su per la scala, attaccato alla ringhiera, cercando di non lasciar svanire nel nulla quella maledetta gazzella elefantiaca. Più di una volta le mie gambe hanno ceduto, e io sono crollato contro la ringhiera, tenendomi aggrappato come la vittima di un terremoto. A un certo punto, un secondo uomo ha sceso la scala, ma a differenza del primo che avevo incontrato, costui ha scrutato la mia salita con gelida disapprovazione. Ho riso quando ci siamo sfiorati, anche se a lui, senza dubbio, la mia risata deve essere parsa un singhiozzo da ubriaco.

Quando ho raggiunto il terzo piano, Robinson era scomparso. Ho barcollato fino al corridoio e ho guardato in entrambe le direzioni. Non c’era nessuno. Ho fatto dietrofront e sono tornato alle scale a passi incerti; ho ripreso a salire. Le pareti cominciavano a diventare un unico ammasso confuso, dal che ho capito che ero quasi sul punto di svenire. E mi ero illuso di avere completamente superato le conseguenze fisiche del viaggio nel tempo! Un altro errore.

Per fortuna, l’ho ritrovato al quarto piano. “Cosa diavolo ci fa quassù?” mi sono chiesto, stordito, mentre lasciavo il pianerottolo. Robinson era in corridoio; stava parlando con un uomo. Ancora oggi non so se si sia fermato a parlare di sua spontanea volontà, per permettermi di raggiungerlo; non certo per simpatia personale, lo sa Iddio, ma forse perché non se la sentiva di affrontare Elise e raccontarle che mi aveva perso per strada. D’altro canto, è possibile che si sia imbattuto per caso nell’uomo e non abbia potuto sfuggire a una conversazione.

Comunque stessero le cose, avvicinandomi su gambe ormai flaccide ho sentito che parlavano dello spettacolo. Giunto più vicino, mi sono fermato e poi appoggiato alla parete, ansante, boccheggiante, assalito da ondate di tenebra. Robinson ha preferito non presentarmi, il che per me è stato un vantaggio, visto che al massimo sarei riuscito a emettere un gorgoglio informe. È probabile che l’altro uomo si sia chiesto chi diavolo fosse quello strano tizio disfatto, riverso contro il muro.

Al termine della conversazione, l’uomo mi ha superato, scrutandomi con fredda curiosità. Robinson si è infilato in un corridoio laterale. Io mi sono staccato dalla parete e l’ho seguito. La sua stanza era sulla sinistra. Mentre lui apriva la porta, ho barcollato verso di lui, ormai troppo vicino allo svenimento per aspettare un invito.

Robinson ha borbottato qualcosa quando l’ho superato; non sono riuscito a decifrare una sola parola. La mia vista sempre più confusa ha individuato due letti al lato opposto della stanza. Su uno era aperto un giornale, così mi sono diretto all’altro. Ho calcolato male le distanze e ho sbattuto la caviglia contro la pedana. Con un gemito di dolore, mi sono piegato in due sul letto e mi sono lasciato precipitare sul materasso, tendendo in avanti la destra per attutire l’impatto. Il palmo della mano è scivolato sulla coperta, e sono caduto di faccia. La stanza ha preso a girarmi attorno come una giostra muta e buia. Me ne sto andando! ho pensato. E quell’idea terrificante è stata l’ultima ad attraversarmi il cervello, prima di precipitare nelle tenebre dell’incoscienza.

Un rumore mi ha svegliato. Ho aperto gli occhi e fissato la parete. Non sapevo dove mi trovassi. Sono trascorsi dieci o quindici secondi prima che una fitta di paura mi spingesse a girare la testa.

È assurdo, immagino, che il fatto di vedere Robinson mi abbia tranquillizzato. Eppure è stato così, perché, in un solo attimo, la sua presenza mi ha detto che non ero tornato indietro. Nonostante un periodo di totale perdita di coscienza, il mio sistema non si era spostato. Il che poteva solo significare che cominciavo a mettere radici.

Ho scrutato Robinson, confuso. Mi girava le spalle, il viso rivolto a un muro nudo. Aveva qualcosa fra le mani. Non riuscivo a vedere di cosa si trattasse, ma a giudicare dai rumori che udivo doveva essere carta.

Alla fine lui si è mosso, si è voltato. C’è stato un modesto tonfo. Io ho chiuso gli occhi, perché non me la sentivo di affrontarlo un’altra volta. Dopo un po’ ho socchiuso le palpebre e ho visto che si era di nuovo girato. Con un’occhiata al punto dove lui si trovava poco prima, ho scoperto che c’era una cassaforte incassata nel muro.

Ho riportato gli occhi su Robinson. Si era messo su una sedia di vimini sotto la finestra, e si stava togliendo le scarpe. Nell’angolo sinistro della sua bocca c’era un mozzicone spento di sigaro. Si era già levato giacca, panciotto, e cravatta. Ho visto fasce elastiche sulle maniche della sua camicia a righe; i polsini avevano l’aria di essere in argento sterling. Anche le decorazioni dei reggicalze neri sembravano d’argento.

La sedia ha scricchiolato quando lui ha lasciato cadere la seconda scarpa (che in realtà era uno stivaletto alto fino alla caviglia). Poi Robinson ha sospirato e appoggiato i piedi, coperti da calze nere, su uno sgabello. Protendendosi sullo scrittoio a fianco della sedia, ha afferrato un coltello da tasca in argento, riccamente intarsiato. Lo ha aperto e ha cominciato a passare sotto le unghie la punta della lama. Il silenzio era così totale che ho potuto udire il lieve grattare del metallo. Ho notato l’anello al medio della sua mano destra: onice nero, con una specie di emblema nobiliare in oro.

Avrei voluto guardarmi attorno nella stanza, ma le mie palpebre stavano ricominciando a diventare pesanti. Mi sentivo caldo e tranquillo anche in compagnia di Robinson. Dopo tutto, quell’uomo stava solo facendo ciò che credeva meglio per Elise.

Mi sono messo a pensare a quello che mi aveva detto lei poco prima. Mi aspettava. Com’era possibile? Non esisteva una risposta razionale, a meno di non pensare in termini di percezione extrasensoriale. Si trattava davvero di ESP? Ero perplesso, ma anche profondamente riconoscente. Qualunque fosse la spiegazione, il fatto che lei mi aspettasse era stato di importanza essenziale. Certo, era ancora lontana, lontanissima dall’“accettarmi” nel modo in cui volevo essere accettato, ma se non altro, avevamo fatto i primi passi.

La mia mente stava di nuovo scivolando nell’incoscienza, però adesso non mi sentivo in apprensione. Ero sicuro che, al risveglio, sarei stato ancora nel 1896. Mentre mi abbandonavo alle ombre, ho tentato di riflettere sull’enigma. Era tutto preordinato? Il fatto che io vedessi la sua fotografia, mi innamorassi di lei, decidessi di cercare di raggiungerla, e infine riuscissi a farlo? E questa situazione preordinata poteva reggersi solo se mantenuta in equilibrio dalla premonizione di Elise sul mio arrivo?

Ero troppo provato per poter risolvere il problema. L’ho lasciato scivolare via dalla mia mente, assieme a ogni scintilla di consapevolezza.

20 novembre 1896

So che i sogni possono essere riflessi di percezioni sensoriali: stavo sognando di una cascata quando mi sono svegliato e ho sentito una cascata d’acqua all’esterno della stanza.

Giratomi, ho guardato verso la finestra e ho visto una cortina d’acqua scendere dalle grondaie, e l’ho sentita rimbombare sul tetto sotto.