Poi, forse più forte di quel suono, ho udito il russare di Robinson e ho guardato in direzione dell’altro letto. Si era addormentato con le luci accese, ancora vestito, riverso sulla schiena come la vittima di un omicidio. Dalla cavità spalancata della bocca usciva quel russare che somigliava al ringhio spasmodico di un leopardo. Il sigaro che prima teneva fra le labbra era caduto sul cuscino, accanto alla sua testa. Grazie a Dio era spento, quando l’impresario si era addormentato. Sarebbe stato atrocemente ironico raggiungere il 1896 solo per morire nell’incendio dell’hotel.
Mi sono rizzato a sedere con movimenti cauti, per non svegliarlo. Precauzione inutile. Robinson è il tipo d’uomo che dorme durante un tornado. L’ho guardato, ho ricordato con quanto malanimo mi avesse trattato. Dopo ciò che avevo letto su di lui, non provavo animosità. Possedere una prescienza quasi divina può, talora, essere un vantaggio.
All’improvviso ho provato il divorante bisogno di essere con Elise, e mi sono chiesto come avrebbe reagito se avessi bussato alla sua porta a quell’ora. Ma nell’attimo stesso in cui lo pensavo ho capito che era impossibile. I costumi di quel periodo lo vietavano; per non parlare del fatto che se Robinson lo avesse scoperto, probabilmente si sarebbe deciso a darmi la lezione più sgradevole di tutta la mia esistenza.
Ma anche così, la consapevolezza della vicinanza fisica di Elise, dopo una separazione di settantacinque anni, mi ossessionava. Cosa stava facendo in quel momento? Dormiva, raggomitolata al caldo nel suo letto? Oppure (ed era ciò che speravo, forse con scarso spirito umanitario, ma per ragioni più che comprensibili) era in piedi davanti alla finestra della sua stanza, a scrutare la notte battuta dalla pioggia e a pensare a me?
Dovevo solo uscire dalla stanza e scendere per scoprirlo.
Per diversi minuti, sono riuscito a portarmi sull’orlo della follia immaginando che lei mi lasciasse entrare nella stanza. Nella mia visione, indossava la camicia da notte e la vestaglia, e quando la stringevo a me (nella visione me lo permetteva subito) sentivo il suo corpo caldo contro il mio. Nella visione, arrivavamo addirittura a baciarci, e le sue labbra erano morbide e arrendevoli, le sue dita si serravano sulle mie spalle. Fianco a fianco, abbracciati, entravamo in camera da letto.
A quel punto, rimproverandomi amaramente, ho trovato la forza di interrompere la visione. “Passo dopo passo” mi sono detto. “Siamo nel 1896; non fare l’idiota.” Con un respiro affannoso, mi sono guardato attorno in cerca di una distrazione mentale.
Me l’hanno offerta le cose di Robinson sistemate sullo scrittoio. Mi sono alzato, ho raggiunto il mobile, e ho guardato il suo orologio da taschino. Erano le tre e sette minuti. “Un’ora splendida per bussare alla porta di una signora” ho pensato mentre scrutavo la cassa dell’orologio. Era d’oro, con complesse decorazioni lungo l’orlo, e la figura di un leone al centro; non un leone vivo, ma di pietra, come quelli all’ingresso della biblioteca pubblica di New York.
Guardando la giacca di Robinson, gettata sullo schienale della sedia, ho visto spuntare da una tasca interna una penna, e l’ho tirata fuori. Sorpreso, ho scoperto che era una stilografica. Strano che fossi stato portato a ritenere estremamente primitivo quel periodo. Prima mi aveva sorpreso l’illuminazione elettrica, e adesso la penna. Dopo tutto, non ero nel Medio Evo. Se non ricordavo male, possedevano anche una loro versione dell’orologio digitale.
Scostata la sedia, mi sono seduto in silenzio e ho aperto il cassetto dello scrittoio. Dentro c’erano i fogli della carta intestata dell’hotel. Tolte di mezzo le proprietà di Robinson (un portafoglio e una scatola per fiammiferi in argento), mi sono messo a scrivere. Ho usato lettere il più possibile piccole e ho richiamato alla mente tutto ciò che rammentavo di un corso di stenografia, perché avevo tante cose da raccontare e non volevo restare senza carta; e in quel modo avrei anche impedito che qualcuno, trovando i fogli, riuscisse a decifrarli.
Adesso sto scrivendo; lo faccio da ore. La pioggia si è interrotta ed è quasi l’alba, credo: il cielo comincia ad assumere una luce grigiastra.
Mi sorprende il fatto che il mio stile narrativo si sia leggermente alterato, quasi mi sforzassi di tenerlo più in armonia con questa epoca. L’unica cosa che le sceneggiature televisive richiedano è un’estrema secchezza. Dettarle al registratore ha reso, da tempo, le mie ancora più concise.
Adesso ho l’impressione di cadere nella distesa loquacità di questo anno. Non è una sensazione spiacevole. Seduto qui, col graffiare della penna sulla carta come unico suono, a parte la lontana voce del mare (persino Robinson, almeno per il momento, si è zittito), mi sento il prototipo del gentiluomo del 1896.
Spero di avere ricordato tutte le cose importanti. So di avere omesso innumerevoli attimi e sfumature di emozioni. Persino fra Elise e me sono state scambiate parole che non rammento. Comunque, credo di avere ricordato i momenti “essenziali.”
Fuori è quasi chiaro. Dalle grondaie scende solo uno sgocciolio d’acqua. Oltre Glorietta Bay vedo una manciata di luci, e i diamanti di rare stelle in cielo. Intravvedo la sagoma scura del camino della lavanderia sul lato opposto del paesaggio, la riva che porta in Messico, e, alla mia destra, il profilo spettrale del pontile in ferro che si protende nell’oceano.
Mi chiedo se sia poco saggio, o addirittura folle, riflettere sulle contraddizioni di ciò che ho fatto. Suppongo sarebbe meglio concentrarmi esclusivamente sul mio tempo 1, sul 1896. Intuisco trappole in qualunque altro atteggiamento.
Però è difficile non prendere in esame le contraddizioni, magari solo a livello superficiale. Per esempio, cosa accadrà il 20 febbraio 1935? Io intendo restare dove sono. In questo caso, cosa succederà in quel giorno del futuro? Il mio io adulto svanirà spontaneamente? Il mio io di neonato vivrà o morirà alla nascita, oppure non sarà mai concepito? Possibilità ancora peggiore, il mio ritorno nel passato creerà il grottesco enigma dell’esistenza simultanea di due Richard Collier? Il concetto è inquietante. Vorrei non averci mai pensato.
Forse, più semplicemente, la risposta è che restando qui io assumerò poco per volta un’altra identità, per cui nel 1935 non esisterà più, letteralmente, un Richard Collier da sostituire.
Mi è venuta in mente un’idea strana; strana nel senso che ci ho pensato soltanto adesso.
Uomini e donne famosi di cui ho letto sono in questo momento vivi.
Einstein è un ragazzo in Svizzera. Lenin è un giovane avvocato, ancora lontano dai giorni della rivoluzione. Franklin Roosevelt studia a Groton, Gandhi fa l’avvocato in Africa. Picasso è un giovanotto, Hitler e De Gaulle ragazzini. La regina Vittoria siede ancora sul trono inglese. Teddy Roosevelt non ha ancora ideato il new deal. H.G. Wells ha pubblicato solo da poco La macchina del tempo. McKinley è stato eletto questo stesso mese. Henry James è appena scappato in Europa. John L. Sullivan si è da poco ritirato dal ring. Crane e Dreiser e Norris stanno appena iniziando a dare vita alla scuola della narrativa realistica.
E mentre io scrivo queste parole, a Vienna, Gustav Mahler sta assumendo l’incarico di direttore della Regia Opera.
Sarà meglio smetterla con pensieri del genere, o…
Buon Dio.
La mano mi trema tanto che quasi non riesco a reggere la penna.
“Ho dormito per ore e ore e non c’è nessuna emicrania.”
Mi sembra di essere ancora col fiato sospeso. La metamorfosi è così elettrizzante che ho paura di pensarci.
Dapprima, non ci ho pensato. Con deliberata meticolosità, mi sono concentrato sui dettagli delle mie azioni. Ho ripiegato con cura i fogli, ne ho sentito la trama sotto le dita, li ho uditi frusciare quando li ho riposti nella tasca interna della giacca. Ho guardato di nuovo l’orologio di Robinson. Erano appena passate le sei e trenta. Mi sono alzato e stirato. Ho guardato Robinson, che dormiva ancora, col respiro che gli gorgogliava in gola. Mi sono permesso di preoccuparmi per le pieghe del mio vestito.