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E sento che, da oggi in poi, le mie emozioni saranno libere. Ma quanto sono complesse. Un momento, provo il desiderio di raccontare al mondo ogni mio sentimento. Il momento dopo, voglio custodire gelosamente le mie emozioni e conservarle per me. Spero di non irritarti troppo. Cercherò di essere coerente, di non oscillare più come un pianeta che abbia smarrito la strada. Perché, finalmente, ho trovato il mio sole.

Ora devo lasciarti per calmarmi e smaltire la febbre interiore, fare gli ultimi preparativi per la recita, poi cercare di riposare un poco. Ho chiesto che ti venga recapitato un invito. Se non lo ricevessi, ti prego di chiedere al bureau. Ho dato ordine che ti riservino una poltrona in prima fila; un errore, ne sono certa. Se solo dovessi intravederti, senza alcun dubbio scorderò ogni battuta e movimento dell’opera.

È un rischio che devo correre. Voglio che tu mi sia il più vicino possibile.

Quell’uomo orribile ci ha interrotti quando stavo per dire le parole che non avrei mai creduto di dire a un uomo in vita mia. Le scrivo adesso. E tu potrai sempre chiedermi di tenervi fede, perché saranno sempre vere.

Ti amo.

Elise

Provate a immaginare un uomo ubriaco d’amore che siede sul suo letto, ignaro di tutto il resto, mentre rilegge quella lettera, poi la rilegge, e la rilegge e rilegge; e poi resta immobile, con le lacrime agli occhi, così sopraffatto dalla gioia che gli viene in mente una sola frase.

“Dio, ti ringrazio di avere creato Elise”.

Erano le sei e quarantacinque quando sono entrato nell’atrio e mi sono diretto alla sala della Corona. Sulla balconata del secondo piano, l’orchestra d’archi suonava una marcetta, e io mi sentivo talmente euforico che i miei piedi avrebbero voluto seguire il tempo. Ho sorriso, deliziato, a ciò che vedevo sul lato opposto dell’atrio: PESCI PESCATI DA UN’ORA (così diceva il cartello) MENTRE NUOTAVANO IN ACQUE PROFONDE. È insolito, come minimo, vedere pesci di enormi dimensioni penzolare nell’atrio di un grand hotel.

Sedendomi, ho visto che a cena non c’era nessuno della compagnia teatrale. Senza dubbio erano tutti in sala da ballo o nelle proprie stanze, a prepararsi per la recita. Comunque, trovarmi solo non mi sembrava strano. Cominciavo a sentirmi realmente parte di quell’ambiente. Che sensazione del tutto diversa da quella della sera prima.

Ho ordinato consommé, fettine di pollo, pane, formaggio e vino, e sono rimasto a scrutare la sala della Corona con enorme gioia, origliando senza pudore. Sono quasi scoppiato a ridere alla frase rivolta da un uomo al suo compagno di tavola: commessi viaggiatori in trasferta di lavoro, ho deciso. Parlando della stazza di sua moglie, il gentiluomo ha dichiarato: — È aumentata, continua ad aumentare, e poffarre, dovrebbe diminuire!

Vibrante di sommesso divertimento, ho girato la testa a guardarli e ho visto che erano entrambi bassi e tozzi. È una mia impressione, o le persone di questo periodo sono, mediamente, di statura più bassa? Mi pare proprio che sia così. Rispetto alla maggioranza degli uomini che ho incontrato, io sono un gigante.

Altri frammenti di conversazione dei due uomini, alcuni divertenti, alcuni istruttivi, altri del tutto incomprensibili. Li trascrivo per quanto ricordo. — Il ragazzo è una frusta naturale. — (Sarà un sadico o sarà portato alla professione di cocchiere?) — I cafri sono duri predoni, ma a volte si riesce a ottenerne qualcosa. — (Qui siamo nella categoria dell’incomprensibile.) — Lo sapevi che hanno usato due milioni di assicelle per il tetto di questo hotel? — (Istruttivo.) — Questa è la Mecca, credimi. La Mecca. — (A proposito dell’hotel.)

Uno degli uomini ha dichiarato che il progresso della civiltà era al suo “apice assoluto”. Ho riflettuto sulla frase e sul modo in cui l’aveva pronunciata.

Ne ho tratto la conclusione che tutto, nel 1896, viene preso più sul serio. Politica e patriottismo. Casa e famiglia. Affari e lavoro. Non si tratta di semplici argomenti di conversazione ma di convinzioni profondamente sentite, capaci di scatenare appassionati conflitti emotivi.

Da un certo punto di vista, disapprovo. Essendo liberale per natura e seguace della semantica generale per convinzione, il mio credo filosofico è che le parole non siano cose. Il fatto che le parole possano scatenare l’ira e, al livello minimo di consapevolezza, provocare morte e distruzione è, per me, un fenomeno atroce, spaventoso.

Al tempo stesso, c’è qualcosa di emozionante negli esseri umani che hanno convinzioni tanto forti. Non intendo dilungarmi in discussioni sul tempo che ho lasciato. Dirò solo che ho il ricordo di un’indifferenza assoluta a molte cose, compresa la vita stessa.

Quindi, mentre gli atteggiamenti del 1896 tendono a essere enfatici e talora brutali, qui se non altro i principi vengono pienamente riconosciuti. Si presta attenzione, si dà importanza. “Occuparsi degli altri” è una prassi operativa, non un atteggiamento mal visto.

Sto cercando di dire che questo estremo mi attrae perché, sul piatto opposto, riporta in parità la bilancia. Fra la rigidità più assoluta e l’apatia completa, a mezza strada, si trovano le motivazioni che possono salvare l’animo umano.

Stavo riflettendo su queste cose quando i miei occhi si sono puntati su un uomo che attraversava la sala nella mia direzione. Le mie gambe hanno avuto sussulti spasmodici sotto il tavolo. Era Robinson.

L’ho fissato, senza capire quale disposizione fisica o mentale dovessi assumere. Era difficile credere che avesse scelto un’affollata sala da pranzo per assalirmi. Però non ne ero del tutto sicuro. Dopo numerose contrazioni dei muscoli dello stomaco, ho abbassato il cucchiaio, aspettando con ansia di cogliere qualche segno che mi indicasse le sue intenzioni.

Per cominciare, non ha chiesto il permesso di tenermi compagnia. Scostata una sedia, si è accomodato di fronte a me. La sua faccia era una maschera che non mi diceva nulla. — Sì? — ho chiesto, pronto a discutere, oppure, in caso di necessità, a lanciargli il consommé in faccia, nel caso avesse estratto di colpo una pistola (il che era la mia idea, piuttosto limitata, lo ammetto, dell’aggressività in pubblico stile 1896).

— Sono qui per parlarle — ha risposto lui. — Da uomo a uomo.

Spero che il mio volto non abbia lasciato trasparire troppo il sollievo nello scoprire che, per il momento, non mi avrebbe sparato. — D’accordo — gli ho detto, in tono pacato e tranquillo. Anzi, troppo pacato, perché lui non mi ha sentito.

— Cosa?

— D’accordo — ho ripetuto. Il mio tentativo di rappacificazione era morto sul nascere.

Robinson mi ha scrutato attentamente. Non come aveva fatto Elise, però. Il suo era uno sguardo di freddo sospetto, non di franca curiosità. — Voglio sapere esattamente chi è lei. Voglio sapere esattamente a cosa mira.

— Mi chiamo Richard Collier — ho ribattuto. — E non “miro” a niente. Si dà soltanto il caso che…

Mi sono interrotto alla smorfia sdegnata delle sue labbra. — Non cerchi di abbindolare me, signore — ha detto Robinson. — Il suo modo di fare può apparire incomprensibile a una certa signora, ma io la capisco molto bene. Lei mira al guadagno.

— Al guadagno?

— Ai “soldi” — ha ringhiato lui.

Mi ha preso in contropiede. Completamente. Ho riso. Fossimo stati più vicini, gli avrei riso in faccia. — Scherza? — ho chiesto, sapendo perfettamente che non scherzava affatto; ma non ho saputo escogitare un’altra reazione.

Il suo volto è ridiventato di pietra, e la mia voglia di ridere è svanita. — La avverto, Collier — ha rombato lui. Era un rombo, lo giuro. — Esistono leggi molto precise, e non esiterò a servirmene.