Adesso cominciava a picchiare duro. Le mie viscere si sono surriscaldate. — Robinson…
— “Signor” Robinson — mi ha interrotto lui.
— Sì, certo. “Signor” Robinson, lei non ha la più pallida idea di quello che sta dicendo.
Lui ha sussultato, come se lo avessi schiaffeggiato violentemente. Io mi sono teso un’altra volta. In quel momento, senza il minimo dubbio, ho capito che Robinson voleva farmi del male, e che avrebbe anche potuto decidere di passare subito all’azione, se avesse perso il controllo.
Non che a quel punto me ne importasse più. Non sono un attaccabrighe; in vita mia mi sono azzuffato pochissime volte. Però ero senz’altro pronto, come avrebbe detto lui, a “prendere provvedimenti”. Confesso di avere provato il desiderio quasi travolgente di fare cambiare forma al suo naso. Protendendomi in avanti, ho detto: — Preferirei non arrivare allo scontro fisico, Robinson, ma non si illuda per un solo secondo che io possa tirarmi indietro. Al momento, se vuole saperlo, l’idea di stenderla al tappeto mi appare deliziosa. Lei non mi piace. È un prepotente, e i prepotenti non mi piacciono. Non mi vanno a genio. Sono stato chiaro?
In quel momento, siamo arrivati più vicini che mai alla rissa. Come cervi in procinto di darsi battaglia, siamo rimasti a scrutarci. Poi le sue labbra si sono tirate in un sorriso; il sorriso più sprezzante che qualcuno mi abbia mai rivolto. — Lei fa il coraggioso in una stanza affollata — ha detto.
— “Possiamo uscire” — ho ribattuto. Gesù, che voglia di tirargli un pugno! In vita mia, non ho mai incontrato qualcuno che abbia scatenato in me tanta ostilità.
Il cameriere ha frainteso la situazione. Tornato al tavolo, ha chiesto se Robinson volesse cenare con me. — No — ho risposto. — Non vuole. — Con più freddezza del necessario, ne sono certo. Il cameriere deve avere pensato che ce l’avessi con lui. Non sono riuscito a reagire con un po’ più di classe.
Ripartito il cameriere, Robinson mi ha detto: — Lei non aproffitterà mai della signorina McKenna, questo glielo prometto.
— Ha perfettamente ragione. Io non approfitterò “mai” di lei. Il che non dipenderà certo dalla sua presenza.
Il suo viso si è indurito. Gli occhi sono diventati due fessure d’acciaio. — Vediamo di trovare un accordo. Qual è il suo prezzo?
Mi ha lasciato esterrefatto. Ho dovuto ridere di nuovo, anche a rischio di farlo imbestialire. — Lei non vuole proprio capire, eh? — ho domandato, incredulo.
Un’altra sorpresa. Invece di avvampare, Robinson ha sorriso con freddo divertimento. — Pessima recitazione, Collier. Se non altro adesso so che lei non è un attore disoccupato in cerca di ingaggio.
Ho emesso un gemito. — Ci risiamo. Soldi, ingaggio… — Ho scosso la testa. — Lei non vede. Non riesce a vedere quello che ha sotto gli occhi.
Un nuovo sorriso raggelato. — Quello che vedo è un impostore.
— E un truffatore. Lo so — ho ribattuto, ricordando ciò che mi aveva detto Elise. Ho sospirato. — Perché non si alza e toglie il disturbo?
— Ho incontrato gente come lei decine di volte — mi ha informato. — E l’ho sempre trattata come si meritava.
Ho annuito stancamente. — Ma certo.
E il ricordo mi ha assalito un’altra volta, distruggendo in un solo istante tutta la mia sicurezza. Non è giusto; è un lato negativo della precognizione. Perché, ricordando in che modo sarebbe morto Robinson, ho provato un’ondata di compassione per lui. Sarebbe affogato nelle gelide acque dell’Atlantico senza mai avere conosciuto l’amore della donna che, tanto chiaramente, adorava. Come potevo odiare un uomo destinato a un simile fato?
Incredibilmente (non lo avrei mai creduto capace di tanta sensibilità), lui si è accorto del mio cambiamento d’espressione, e ne è rimasto perplesso. Era in grado di reagire all’ira, non alla compassione. Credo che la cosa lo abbia spaventato, perché quando ha ripreso a parlare, la sua voce non era più troppo salda. — La convincerò a darle il benservito al più presto, signore. Ci può contare.
— Mi spiace, signor Robinson — ho detto io.
È stato come se non avessi aperto bocca. — E se così non fosse — ha continuato lui, soffocando la mia voce con la sua — le assicuro che sono perfettamente in grado di farla scomparire di scena.
Non ero abbastanza attento. Mi sono occorsi almeno quindici secondi per capire che mi aveva minacciato di morte.
— Come preferisce — gli ho detto.
La fronte aggrottata, ha spinto indietro la sedia, quasi rovesciandola. Si è alzato, ha girato sui tacchi ed è ripartito di corsa. Quali erano le sue emozioni in quei momenti? Nonostante le minacce tutt’altro che velate, provavo ancora pietà per lui: un altro tipico difetto da scrittore che imbastardisce anche una necessità vitale come l’autodifesa. Ma sfuggire alla verità era impossibile. Robinson amava Elise quanto me, e da molto più tempo di me.
Come potevo non capirlo?
Erano le diciannove e trenta appena passate quando ho consegnato l’invito all’uomo alla porta della sala da ballo e sono stato accompagnato al mio posto in prima fila. C’erano appena un pugno di persone, così ho avuto la possibilità di scrivere senza essere notato. Adesso che ho terminato di raccontare tutto, mi posso guardare attorno.
La sala da ballo non è affatto spettacolare come la ricordo. Somiglia a una caverna buia. Il soffitto, enormemente alto, sale lungo una serie di sezioni ad angolo solcate da travi portanti. Le finestre sono alte e strette, le pareti a pannelli di legno scuro; il pavimento a parquet ha un’aria spoglia. Anche la mia “poltrona” è in realtà una sedia pieghevole di legno. L’atmosfera generale è tutt’altro che sontuosa.
Il palcoscenico è più grande (ha una lunghezza di una dozzina di metri, direi), ma è meno ricco. Il proscenio è curvo, senza gradini per raggiungerlo. Non so dire quale sia la profondità perché il sipario è chiuso. Da dietro mi giunge il ronzio di un’attività frenetica: voci, passi, scricchiolii, tonfi. Mi piacerebbe andare dietro le quinte, a fare gli auguri a Elise, ma so che non devo intromettermi. La prima di un nuovo spettacolo è già abbastanza brutta di per sé, e io ho aggiunto chissà quante preoccupazioni… Spero che sia in forma.
Sto guardando il programma. In copertina ci sono il titolo dell’opera e una fotografia di Elise. Una fotografia? “La” fotografia. Che strana sensazione vederla, e rendermi conto di quanta strada mi abbia fatto percorrere.
Sul fondo della copertina sono stampate le parole HOTEL DEL CORONADO / DIRETTORE, E.S. BABCOCK / CORONADO BEACH, CALIFORNIA. Giro il programma e vedo, sul retro, la pubblicità delle “svariate e diversissime attrattive” dell’hotel. A modesta opinione di chi scrive, la maggiore di queste attrattive è di gran lunga una piccola, snella attrice di nome Elise.
Aprendo il programma, vedo sulla pagina di sinistra: Il signor William Fawcett Robinson presenta / LA SIGNORINA ELISE MCKENNA / In una nuova commedia in quattro atti, intitolata / Il piccolo ministro / di J. M. BARRIE / Tratta dal suo omonimo romanzo. Sotto, due righi della canzone composta da William Furst, che si intitola La musica di Lady Babbie (a tempo di valzer). Sto cercando di evocarla a livello mentale, col poco che ricordo delle lezioni di pianoforte della mia infanzia.
Sotto la musica appaiono i nomi di alcuni personaggi: Gavin Dishart, Lord Rintoul, il capitano Halliwell. Il quarto nome è Lady Babbie, figlia di Lord Rintoul; e, sul lato opposto della pagina, c’è il nome di Elise McKenna. Ho i brividi (è l’unico termine accettabile) all’idea di vederla recitare.