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«Me ne guardo bene» disse Jerome in tono conciliante. «Ascoltate, Maeve, spero non vi dispiaccia se vi chiamo per nome, so benissimo che la teoria della medicina è molto debole, ma se vogliamo scoprire cosa è successo a vostro padre dobbiamo controllare tutte le teorie sia pure per eliminarle una dopo l’altra. E ora ditemi, sapete dove posso trovare il dottor Pitnam?»

«Lo so ma non ve lo dico» Maeve si avviò con passo deciso verso l’anticamera, costringendo Jerome a seguirla. «Il dottor Pitnam è una persona esemplare. È venuto qui ieri senza essere chiamato, solo per accertarsi che stessi bene e per farmi le condoglianze. E adesso voi vorreste andare da lui ad accusarlo di aver rubato una stupida scatoletta.»

«Non pensavo più alla scatola» mentì Jerome. «Volevo solo chiedere al dottore se aveva prescritto qualche particolare medicina a vostro padre.»

Maeve aprì la porta d’ingresso. «Signor Jerome, quando mi sono messa in contatto con l’Examiner l’ho fatto perché si venisse a sapere che mio padre non era una spugna imbevuta di alcol, non per aprire a voi una brillante carriera di scrittore di fantascienza curioso e ficcanaso … e se mai verrò a sapere che avete disturbato il dottor Pitnam protesterò col vostro direttore e farò del mio meglio perché siate licenziato.»

Poco dopo, senza quasi rendersi conto di come fosse successo, Jerome si trovò fuori. Nel corso del loro primo incontro Maeve gli aveva detto di avere un carattere impulsivo, e adesso gliene aveva dato una dimostrazione. Qualcosa nel tono della voce gli aveva fatto capire che non minacciava a vuoto, e sarebbe stata veramente capace di andare da Anne Kruger a esigere che fosse licenziato.

Scese zoppicando i gradini e salì in macchina. Premette poi il tasto contrassegnato Elenco Telefonico sul cruscotto e chiese l’indirizzo del dottor Pitnam. Poco dopo la macchina rispose: «Quattro-Otto-Quattro Hampshire Drive, Albany, Whiteford.»

Jerome annuì soddisfatto e avviò il motore. Albany era un quartiere esclusivo che, quasi per reazione alla planimetria a griglia del resto della città, aveva strade tortuose che portavano il nome delle contee inglesi, invece di essere contrassegnate da numeri. Gli ci vollero alcuni minuti per arrivarci e trovare l’indirizzo in un viale alberato, dove folte siepi nascondevano la vista delle case dalla strada. Imboccò un vialetto semicircolare e si fermò davanti a una casa di mattoni quasi interamente coperta da edera rampicante. Le porte del garage adiacente erano aperte, segno che il dottore non era in casa.

Jerome suonò il campanello — un bottone di ceramica bianca inserito in un disco di ottone sbalzato — e sentì un melodioso tintinnio all’interno, ma nessuno venne ad aprire. Tornò a suonare più volte, rifiutandosi di darsi per vinto, e stava già per rinunciare quando una voce maschile alle sue spalle lo fece sussultare.

«Il dottor Bob non c’è» disse la voce.

Jerome si voltò di scatto e vide un giovane in abiti da lavoro con una cesoia da giardiniere in mano. Era quasi calvo, con qualche ciocca di capelli biondastri che gli attraversava il cranio, e aveva quel caratteristico colorito grigiastro delle persone molto pallide che sono abbronzate. Jerome ebbe l’impressione che fosse malato.

«Non potete dirmi dov’è il dottore? All’ospedale?» gli chiese.

«Oh, no!» rise il giovane come se Jerome avesse detto una spiritosaggine. «È andato da Mason a ritirare le camicie nuove. Sarà qui fra un quarto d’ora o poco più.»

«Allora lo aspetto in macchina.»

«Perché? Vi sciogliereste in sudore, con questo caldo. Seguitemi e vi mostrerò dove potete aspettarlo.» Il giovane gli fece un cenno e senza aspettarlo si avviò scomparendo dietro l’angolo della casa. Jerome lo seguì sul retro dove si stendeva un ampio giardino ben curato con siepi squadrate e aiuole di rose bianche.

«Entrate e mettetevi a sedere.» Il giovane indicò una porta finestra spalancata che dava in una stanza ombrosa arredata come uno studio o un ufficio. «Accomodatevi.»

«Non so se …» Jerome esitava non sapendo come spiegare che non sapeva se poteva entrare col solo permesso del giardiniere.

«Entrate, entrate» insiste l’altro. «Direte al dottore che è stato Sammy Birkett a darvi il permesso. È stato il dottor Bob a dirmi di far così. Lo giuro.»

«Grazie, Sammy.» Jerome entrò nella stanza e sedette in una poltrona di cuoio davanti alla scrivania. Il rumore delle cesoie rivelava che Birkett si era rimesso al lavoro. Le pareti erano quasi interamente occupate da librerie che andavano dal pavimento al soffitto, piene di testi di medicina e di letteratura varia. Fra le librerie erano appesi numerosi certificati, foto di famiglia e pallide mezzetinte di soggetto sportivo. Era una stanza che volutamente era sfuggita all’era elettronica, o per vanità o per distinguersi dalla moda del tempo, e intuendo che Pitman passava lì la maggior parte del suo tempo, Jerome sentì che il dottore doveva essere una persona simpatica.

Aspettò dieci minuti e poi, cominciando a spazientirsi, si alzò ad andare a guardare da vicino le fotografie nella speranza di identificare Pitman. Intanto l’attesa si prolungava e via via che passavano i minuti andava facendosi sempre più incombente l’immagine di Anne Kruger, sempre più infuriata. Tutte le volte che gli veniva fatto di pensare che a causa della sua assenza rischiava di perdere il lavoro si sentiva attanagliare dall’angoscia, aggravata dall’idea che non era per niente sicuro di riuscire a dimostrare l’esattezza della sua teoria. Ma per mettersi l’animo in pace bisognava dimostrare che era sbagliata.

La crescente agitazione lo spinse a continuare a andare su e giù intorno alla stanza, e fu al terzo giro che notò una busta con un francobollo semicircolare nel cestino dei rifiuti. A quanto ne sapeva i francobolli di quella forma erano in dotazione solo all’Amity, l’installazione angloamericana dell’Antartico. Non avendone mai visto prima uno, Jerome si chinò a prendere la busta e rimase sorpreso nel constatare che proveniva dalla sede della Società CryoCare di Amity.

Da una decina d’anni si era riacceso l’interesse per la conservazione a bassissima temperatura delle vittime di talune malattie, nella speranza che la medicina sarebbe stata un giorno in grado di farle tornare in vita e guarirle. La CryoCare aveva nell’Antartide un deposito di corpi e un laboratorio scientifico, in quanto laggiù esistevano le condizioni naturali per la conservazione degli organismi, ma nonostante gli innegabili progressi della scienza in quel particolare campo, Jerome dubitava che si potesse raggiungere lo scopo desiderato. Provava una sfiducia istintiva verso qualsiasi progetto che coinvolgesse gente timorosa di morire ma divisa dalle condizioni economiche. Il fatto che Pitman avesse rapporti con la CryoCare non si accordava con l’idea che lui si era fatta di un benevolo medico di famiglia della vecchia scuola. Ma probabilmente quella busta aveva contenuto solo un volantino pubblicitario. Perplesso, Jerome tornò a gettarla nel cestino e andò alla finestra.

Il giardiniere era lì vicino. Aveva sospeso il lavoro e teneva gli occhi fissi nel vuoto, con la testa piegata di lato come se stesse ascoltando qualcuno che parlava sottovoce. Guardandolo, Jerome si persuase sempre più che Birkett doveva essere malato o convalescente da un’operazione. Il giovane, ignaro di essere osservato, infilò le cesoie sotto l’ascella e trasse dalla tasca dei jeans una scatoletta di cui tolse una pastiglia che si mise in bocca.

Jerome, la cui vista era ottima grazie agli occhiali, riconobbe subito dal colore la scatoletta da cui Birkett aveva preso la pastiglia. Era viola e a forma di cuore, e gli parve che l’immagine si avvicinasse, ingrandendo, come se i suoi occhi fossero provvisti di zoom.

«Sammy» disse col cuore in gola, «cos’è quella pillola che avete preso?»

«Pillola?» Birkett rimase un attimo interdetto, poi sorrise. «Non è una pillola» e socchiudendo le labbra mostrò un confettino rosa che stringeva fra i denti. Il suo alito sapeva di cannella.