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Jerome, deluso e imbarazzato, mormorò: «Oh … scusate.»

«E di che?» ribatté Birkett e gli porse la scatoletta: «Sono buone. Prendetene una.»

«Grazie.» Jerome esaminò la scatola e vide che nonostante la forma insolita si trattava di un prodotto a larga diffusione. Sul coperchio c’era scritto: Regency Cacciù, e, a lettere più piccole: T. J. Grant Co. — Chipping Norton, Oxford. L’aprì e prese uno dei confettini. Il sapore di spezie gli pizzicò la lingua, ma era sommamente improbabile, pensò con amara autocritica, che succhiandolo sarebbe morto per autocombustione. Aveva costruito con la fantasia un ridicolo castello sull’antiquata abitudine di un medico di provincia di offrire dolciumi ai pazienti.

«Il dottor Bob li fa venire dall’Inghilterra» disse Birkett rimettendo in tasca la scatoletta. «A casse. Dice che fanno bene allo stomaco.»

«Son certo che ha ragione» asserì Jerome, rabbrividendo quando un’occhiata all’orologio gli rivelò che erano le undici meno cinque. Si era comportato da idiota, e meno male che aveva scoperto la verità senza aver parlato con Pitman e senza aver detto chi era al giardiniere. Se si affrettava a tornare in ufficio forse avrebbe trovato una buona scusa per il ritardo e con questo avrebbe sepolto quel ridicolo episodio, e con un briciolo di fortuna sarebbero passati anni prima che cadesse un’altra volta vittima di una simile aberrazione mentale.

«Sammy, si fa tardi. Ho deciso di non aspettare il dottore.»

«Tornerà fra un minuto» ribatté Birkett deluso. «Non gli ci vuol molto per andare a ritirare le camicie.»

«Non importa… Non era niente di urgente.»

«Se lo dite voi.» Inaspettatamente, Birkett si fece avanti e lo prese per un braccio. «Abbiate sempre cura della vostra salute» gli raccomandò.

«State tranquillo» rispose Jerome turbato dal contatto fisico con quell’estraneo che si comportava in modo strano.

«Il dottor Bob vi rimetterà in sesto» continuò il giovane rafforzando la presa. E aggiunse con ingenuo orgoglio: «Io ho il cancro.»

«Mi dispiace» disse sempre più a disagio Jerome, intuendo che gli sarebbe stato difficile adesso congedarsi senza sembrare maleducato.

«Oh, ma guarirò! Il dottor Bob mi sta curando molto bene, anche se non ho soldi. In cambio bado al giardino.»

«Con ottimi risultati, a quanto vedo» commentò Jerome liberando il braccio, anche se aveva deciso di trattenersi ancora un po’. Era evidente che Birkett aveva voglia di chiacchierare, e forse, nonostante quello che aveva detto, aveva paura di morire. Se Pitman fosse arrivato nel frattempo, avrebbe imbastito lì per lì una scusa per giustificare la sua presenza. Tanto per dir qualcosa chiese al giovane consigli sulla coltivazione delle rose e si addentrò con lui fra le aiole per osservarle più da vicino. Poi, pensando che era venuto il momento di accomiatarsi, guardò con ostentazione l’ora.

«Mi ha fatto piacere parlare con voi, Sammy» disse, «ma adesso devo proprio andare.»

Birkett non rispose. Stava ritto nella stessa posizione in cui Jerome l’aveva visto poco prima dalla finestra, con la testa semicalva inclinata di lato come se ascoltasse una voce lontana. Teneva lo sguardo fisso ed era chiaro che non aveva sentito le parole di Jerome. Questi cominciava a sentirsi in trappola. Pensò per un attimo di voltarsi e tagliare la corda, ma chissà perché si sentiva responsabile del benessere del giardiniere e aveva la sgradevole sensazione che fosse in preda a una crisi. Si guardò intorno in cerca di ispirazione e vide poco distante un piccolo capanno estivo aperto sul davanti.

«Sammy, credo che dovreste mettervi a sedere» disse. «Intanto vado a prendervi un bicchier d’acqua.»

Prese Birkett per un braccio e lo spinse verso il capanno. Il giovane non oppose resistenza e si lasciò cadere su una panca di legno appoggiando la schiena alla parete di fondo. Aveva lo sguardo fisso nel vuoto e stava accasciato sulla panca come un fagotto di stracci. «Tornerò fra un attimo.» Jerome si avviò verso la villa, ma si voltò subito perché Birkett aveva emesso un rumore come se fosse in preda a un conato di vomito. «Vi sentite male?» chiese.

Tenendo gli occhi sbarrati fissi nei suoi, Birkett aprì la bocca ed eruttò una ruggente lingua di fiamma azzurra.

Jerome cadde in ginocchio stringendosi le mani al petto, incapace di distogliere lo sguardo, emettendo un gemito animalesco a quella vista che era un affronto alla ragione e al creato. Un essere umano che ardeva come una torcia imbevuta di petrolio! Per fortuna lo spazio angusto del capanno tratteneva il denso fumo azzurro impedendogli di scorgere i particolari. Tuttavia quel che Jerome ebbe il tempo di vedere fu sufficiente a suscitare migliaia di incubi.

Vide una vivida fiamma saettare intorno alla bocca incenerendo la faccia. Vide il tronco gonfiarsi, afflosciarsi e tornare a gonfiarsi mentre veniva consumato da un tremendo calore che tuttavia, per chissà quale miracolo, risparmiava gli indumenti. Vide gli arti torcersi spasmodicamente mentre il fuoco li divorava, trasformando il corpo in una oscena marionetta danzante…

Jerome era entrato in una dimensione di orrore senza tempo, ma un frammento della sua mente ancora lucido si accorse che la trasformazione di Birkett in un mucchietto di cenere si svolgeva con incredibile rapidità. Dopo un paio di minuti al massimo tutto era finito. Il fuoco, terminato il suo lavoro, si era spento.

Jerome, sempre in ginocchio aspettò che si attenuassero i dolorosi battiti del cuore e quando ebbe la certezza che non sarebbe morto, si alzò. Una pesante cappa di silenzio era calata sul giardino, trattenuta dal perimetro delle siepi. Fece qualche passo avanti, con cautela. Il fumo azzurro si andava disperdendo rapidamente in volute spinte dalla leggera brezza che gli portava alle narici un sentore di dolciastro. Jerome tentò con uno sforzo di trasformarsi in un osservatore spassionato.

Aveva assistito a un esemplare caso di combustione spontanea, come se una delle foto che aveva visto si fosse trasformata in orripilante realtà. Della testa e del tronco di Birkett restavano solo ceneri ammucchiate in una cavità scavata dal fuoco nel legno della panca. Per raggiungere una tale distruzione doveva essersi sviluppato un calore eccezionale, tuttavia anche in quel caso erano presenti le tipiche anomalie della CUS. Il legno del capanno era secco ma non aveva preso fuoco, e fra le ceneri erano mischiati parecchi brandelli di camicia. Erano rimaste intatte anche le gambe dei calzoni, simili a due tubi flosci ammucchiati per terra, sebbene la carne e le ossa che avevano contenuto fossero ridotte in polvere. Jerome avrebbe scommesso che Birkett era un manichino di paglia o di qualche altra sostanza infiammabile, se non avesse assistito alla scena. Le mani, fin troppo umane giacevano intatte ai lati delle ceneri sulla panca. Il fuoco le aveva troncate ai polsi cauterizzando il sangue, ma dalla crepa in un moncherino filtrava un liquido rosso. All’improvviso Jerome ne ebbe abbastanza. Il suo sistema nervoso era rimasto paralizzato dallo shock, dalle immagini macabre e dall’odore nauseabondo, ma adesso cominciava a reagire. Si voltò, scosso da violenti conati, che continuarono a lungo anche quando il suo stomaco fu vuoto, tanto che dovette reggersi a un albero. La mente, invece, come se fosse staccata dal corpo sconvolto, cominciò a pensare in modo freddo e limpido:

La combustione umana spontanea è un fenomeno rarissimo. Ogni anno se ne verifica solo qualche caso isolato, in tutto il mondo, senza plausibili collegamenti. Di conseguenza è davvero straordinario che due abitanti della stessa cittadina abbiano fatto la stessa fine nel giro di una sola settimana. E ancor più notevole è il fatto che ambedue fossero in cura presso lo stesso medico…

Jerome si staccò dall’albero e, sempre in preda ai conati, ma spinto da una necessità impellente, corse verso la sua automobile. Aveva cercato un legame fra i casi di morte per CUS, un fattore comune, ma non aveva pensato a un agente umano.