Выбрать главу

E forse questo spiegava l’incredibile mancanza di nerbo che Lloyd aveva notato molto spesso. Anche nel 2030 l’uomo non si era ancora avventurato oltre la Luna; nessuno aveva raggiunto Marte nei sessantuno anni successivi alla piccola passeggiata di Armstrong, e non sembrava esistere alcun programma per realizzare quel progetto. Marte, naturalmente, poteva allontanarsi dalla Terra fino a 377 milioni di chilometri, quando i due pianeti si trovavano sui lati opposti del sole. Una mente umana su Marte, in quelle condizioni, si sarebbe trovata a ventuno minuti luce dalle altre menti sulla Terra. Anche le persone che stanno in piedi l’una accanto all’altra sono in qualche modo separate dal tempo: si vedono non come sono, ma come erano un miliardesimo di miliardesimo di secondo prima. Sì, un certo grado di desincronizzazione era chiaramente tollerabile, ma doveva esserci un limite. Magari sedici minuti luce erano ancora accettabili — la distanza fra due individui sui lati opposti di una sfera di Dyson costruita lungo il raggio dell’orbita terrestre — ma ventuno minuti luce erano troppi. 0 forse anche sedici minuti luce erano al di là della capacità di accettazione di un essere consapevole. Il genere umano aveva certamente costruito la sfera di Dyson che Lloyd aveva osservato — e così facendo aveva posto una barriera fra sé e la vuota, solitaria vastità dell’esterno — ma forse la sua intera superficie interna non era popolata. La gente poteva occupare solo una porzione della superficie. Una sfera di Dyson, in fin dei conti, aveva un’area milioni di volte superiore a quella del pianeta Terra; anche occupare solo un decimo del territorio disponibile avrebbe offerto all’umanità una quantità di spazio di gran lunga maggiore di quello che avesse mai avuto a disposizione. La sfera poteva raccogliere ogni fotone emesso dalla stella centrale, ma probabilmente l’umanità non si era sparpagliata lungo tutta la superficie.

Lloyd — o qualunque cosa lui fosse diventato — si ritrovò a spingersi sempre più avanti nel futuro. Le immagini continuavano a cambiare.

Pensò a ciò che aveva detto Michiko: Frank Tipler e la sua teoria che chiunque fosse mai vissuto, o dovesse ancora vivere, era destinato a essere resuscitato nel punto Omega, per vivere di nuovo. La fisica dell’immortalità.

Ma la teoria di Tipler si basava sul presupposto che l’universo fosse chiuso, che avesse massa sufficiente perché la sua attrazione gravitazionale facesse collassare alla fine ogni cosa, riducendo il tutto a una singolarità. Col passare degli eoni divenne ben presto chiaro che ciò non sarebbe avvenuto. Sì, la Via Lattea e la sua più immediata vicina erano entrate in collisione, ma anche intere galassie erano ben poca cosa, a paragone con un universo in continua espansione. L’espansione poteva anche rallentare fino a ridursi a quasi nulla, avvicinandosi asintoticamente allo zero, ma non si sarebbe mai fermata. Non ci sarebbe mai stato un punto Omega. E non ci sarebbe mai stato un altro universo. Esisteva solo quello, la sola e unica iterazione dello spazio e del tempo.

Naturalmente, a questo punto, anche la stella racchiusa nella sfera di Dyson aveva senza dubbio esalato l’ultimo respiro; se gli astronomi del ventunesimo secolo non si erano sbagliati, il sole della Terra era destinato a espandersi in una gigante rossa, inghiottendo il guscio che lo circondava. L’umanità aveva avuto certamente miliardi di anni di preavviso, però, e si era di sicuro spostata — en masse, se è questo che richiedeva la fisica della consapevolezza — da qualche altra parte.

Almeno lo spero, pensò Lloyd. Si sentiva ancora disconnesso da tutto ciò che gli si mostrava in immagini individuali, luminose. Forse l’umanità era stata spazzata via quando il suo sole era morto.

Ma lui — qualsiasi cosa fosse diventato — era in qualche modo ancora vivo, ancora pensava, ancora provava sensazioni.

Doveva esserci qualcun altro con cui dividere tutto questo.

A meno che…

A meno che quello fosse il modo dell’universo di sigillare l’inattesa spaccatura causata dai neutrini di Sanduleak che si riversavano da una ricreazione dei primi momenti dell’esistenza.

Spazzare via ogni forma di vita estranea. Lasciare solo un osservatore qualificato… una forma onnisciente, che tenesse d’occhio…

…ogni cosa, decidendo la realtà in base alla sua osservazione. Bloccandola in un adesso stabile, muovendosi in avanti all’inesorabile ritmo di un secondo in più ogni secondo.

Un dio…

Ma di un universo vuoto, senza vita, incapace di pensare.

Alla fine la corsa nel tempo si fermò. Era giunto alla sua destinazione, al momento della rivelazione; la consapevolezza di questo anno così remoto — se la parola ‘anno’ poteva avere più qualche significato, adesso che il pianeta del quale misurava l’orbita era da tempo scomparso — si era trasferita in regni ancora più lontani, lasciando al suo posto un buco che lui poteva occupare.

Naturalmente l’universo era aperto. Naturalmente sarebbe andato avanti per sempre. L’unico modo in cui la consapevolezza del passato poteva continuare a balzare in avanti era quello di avere sempre un punto più lontano in cui potesse spostarsi la consapevolezza del presente; se l’universo fosse stato chiuso, la dislocazione temporale non si sarebbe mai verificata. Doveva essere una catena senza fine.

E adesso, di fronte a lui…

Di fronte a lui, adesso, c’era il futuro più remoto.

Da ragazzo Lloyd aveva letto La macchina del tempo, di H. G. Wells. E ne era rimasto affascinato per anni. Non dal mondo degli Eloi e dei Morlock; anche se così giovane, l’aveva subito interpretata come un’allegoria, un ‘morality play’ sulle strutture di classe dell’Inghilterra vittoriana. No, quel mondo dell’anno 802.701 non lo aveva impressionato più di tanto. Ma il viaggiatore nel tempo di Wells aveva effettuato un altro viaggio, nel libro, balzando in avanti fino al crepuscolo del mondo, quando le forze di marea avevano rallentato la rotazione della Terra, che aveva finito col rivolgere sempre la stessa faccia al sole, rosso e rigonfio, un occhio funesto sull’orizzonte, mentre cose simili a granchi risalivano lentamente lungo una spiaggia.

Ma ciò che era di fronte di lui, adesso sembrava ancora più desolato. Il cielo era buio: le stelle si erano allontanate così tanto fra loro che se ne vedevano pochissime. L’unico frammento di bellezza era che queste stelle, ricche di metalli forgiati nella generazione di soli che era venuta e scomparsa prima di loro, risplendevano di colori mai visti nel giovane universo. Che Lloyd conosceva da poco: stelle verde smeraldo, stelle purpuree, stelle turchese, come pietre preziose incastonate in un firmamento di velluto.

E adesso che era giunto alla sua destinazione, Lloyd non aveva ancora alcun controllo sul suo corpo sintetico; era un passeggero dietro occhi di vetro.

Sì, era ancora solido, aveva ancora una forma fisica. Ogni tanto riusciva a vedere ciò che sembrava essere il suo braccio, perfetto, immacolato, più simile a metallo liquido che a qualcosa di biologico, che entrava e usciva dal suo campo visivo. Si trovava sulla superficie di un pianeta, un’enorme distesa di polvere bianca che poteva essere neve, o roccia polverizzata, o qualcosa di totalmente sconosciuto alla povera scienza vecchia di miliardi di anni. Non c’era traccia di edifici; se si possedeva un corpo indistruttibile forse non si aveva bisogno di un riparo, o non lo si desiderava. Il pianeta non poteva essere la Terra — era scomparsa da tempo immemorabile — ma la gravità sembrava molto simile. Lloyd non sentiva alcun odore, ma c’erano dei suoni… suoni strani, eterei, una via di mezzo fra il sospiro di uno zefiro e la musica del vento.