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Disse: — Dov’è Nick?

— Fuori. Credo che tenga d’occhio quella ragazza.

— Per poco non ha fatto un grosso sbaglio, iersera. La ragazza è andata al Portico e non era debitamente protetta. Uno sciocco le ha messo le mani addosso. Per fortuna di Nick, la ragazza ha resistito. La sto tenendo in serbo.

— Sì. certo.

— Naturalmente, nessuno l’ha riconosciuta. È dimenticata. Il suo grande anno è stato l’anno scorso. Oggi, è nessuno. Tuttavia — disse Chalk — c’è da ricavare da lei, sapendo fare, una buona storia. Se si lascia insozzare da qualche sporcaccione ignorante, ciò rovinerebbe la storia, Nick deve stare più attento. Glielo dirò. Tu, provvedi a Burris.

Aoudad uscì svelto dalla stanza. Chalk se ne rimase seduto, canticchiando fra sé oziosamente, e godendosela. Quell’affare avrebbe funzionato. Sarebbe di sicuro piaciuto moltissimo al pubblico, quando fosse sbocciata la storia d’amore. Ci sarebbe stato da rastrellare denaro a palate. Beninteso, Chalk non aveva bisogno di fare altri soldi.

Questi costituivano lo stimolo, un tempo; ma ora non più. Neppure la prospettiva di un accrescimento di potere lo allettava un gran che. A dispetto delle teorie comuni, Chalk aveva conseguito un grado di potere sufficiente e, se fosse stato certo di poter conservare quel che aveva, sarebbe anche stato disposto a cessare di espanderlo. Ma un’altra cosa, più intima, guidava ora le sue decisioni. Quando l’amore del denaro e l’amore del potere si sono saziati, rimane sempre l’amore dell’amore. Chalk non trovava l’amore là dove gli altri possono trovarlo; ma aveva anche lui i suoi bisogni. Forse Minner Burris e Lona Kelvin avrebbero potuto appagarli. Catalisi. Sinergia. Poi, si vedrà.

Chiuse gli occhi.

Vide se stesso, galleggiante nudo in un mare verde azzurro. Alte onde gli schiaffeggiavano i fianchi bianchi e lisci. La sua gran massa si muoveva agevolmente, perché lì era senza peso, sostenuta in seno all’oceano, con le ossa che una volta tanto non si flettevano sotto la forza di gravità. Lì Chalk era rapido.

Volteggiava avanti e indietro, sfoggiando la sua agilità nell’acqua. Scherzavano intorno a lui le lampughe, i cefalopodi, i marlin. Al suo fianco si muoveva la massa verticale, stupida e solenne di un ortagorisco, il pesce luna che, quanto a mole, non è cosa da poco, neanche lui, eppure sembrava un’inezia accanto alla sua candida immensità.

Chalk vide delle imbarcazioni sull’orizzonte. Uomini che si avvicinavano, ergendosi, truci. Era lui, adesso, la preda. Rise con riso tonante. All’avvicinarsi delle imbarcazioni, si voltò e nuotò verso di loro, provocandoli, invitandoli a fare il peggio. Stava affiorando, con bianchi bagliori nella luce del mezzodì. Falde d’acqua grondavano a cascata dal suo dorso.

Ora le imbarcazioni erano vicine. Chalk girò su se stesso. Le pale di una coda potente frustarono l’acqua. Un’imbarcazione rimbalzò in aria, frantumata, rovesciando nella spuma il suo carico gesticolante di uomini. Un impeto muscolare lo allontanò dai suoi inseguitori. Soffiò fuori un grande zampillo, per celebrare il suo trionfo. Poi si immerse, sprofondando gioiosamente verso l’abisso e in pochi istanti la sua bianchezza svanì nel regno in cui la luce non penetra mai.

6

Madre, pietà, lasciami morire

— Dovresti uscire dalla tua stanza — suggerì dolcemente l’apparizione. — Mostrarti al mondo. Affrontarlo a testa alta. Non c’è nulla da temere.

Burris gemette: — Ancora tu! Ma mi vuoi lasciare in pace?

— Come potrei mai lasciarti? — chiese il suo doppio.

Burris cercò di fissare lo sguardo negli strati di tenebre che si andavano addensando. Quel giorno aveva mangiato tre volte, quindi poteva darsi che fosse notte; non lo sapeva e, comunque, non gliene importava niente. Una fessura lucente gli forniva qualsiasi cibo chiedesse. Quelli che gli avevano riorganizzato il corpo avevano migliorato il suo sistema digestivo senza introdurvi mutamenti radicali. Non era un favore grandissimo; ma egli poteva ancora nutrirsi con alimenti terrestri. Gli enzimi, lo sapeva il cielo da dove venissero; ma erano gli stessi. Pepsina, ptialina, tutta la diligente tribù. Ma, dell’intestino tenue, che ne era stato? Dov’erano finiti il duodeno, l’intestino tenue secondo e l’ileo? Che cosa aveva sostituito il mesenterio e il peritoneo? Tutti andati, spariti; ma in qualche modo gli enzimi facevano il loro lavoro. Così avevano detto i medici terrestri che lo avevano esaminato. Burris sentiva che morivano dalla voglia di dissezionarlo per conoscere in modo più particolareggiato i suoi segreti.

Pazienza, un po’ di pazienza, che diamine. Quel momento sarebbe arrivato. Ma a suo tempo!

E il fantasma della felicità passata non voleva eclissarsi.

— Guarda un po’ che faccia hai — disse Burris. — Come si muovono stupidamente le tue palpebre. In su, in giù, apri, strizza, apri. Che occhi volgari! Hai il naso che ti manda in gola quel che non dovrebbe. Riconosco che, rispetto a te, rappresento un notevole miglioramento.

— Certo. Perciò ti dico: esci e fatti ammirare dall’umanità.

— Quando mai l’umanità ha ammirato un esemplare perfezionato di se stessa? Forse che il pitecantropo si è prosternato al primo uomo di Neanderthal? E questi ha acclamato il cro-magnon?

— Paragone inadatto: non hai superato gli altri con l’evoluzione, Minner. Ti ha cambiato un intervento estraneo. Gli altri non hanno motivo di odiarti per ciò che sei.

— Non occorre che mi odino. Basta che stiano a fissarmi con tanto d’occhi. Inoltre, sto male. È più facile restarmene qui.

— Il tuo male è davvero così difficile da sopportare?

— Mi sto abituando — disse Burris. — Però ogni movimento è una trafittura. Quegli Esseri erano solo allo stadio sperimentale. Hanno fatto i loro piccoli sbagli. Prendi, per esempio, quella camera supplementare del cuore: a ogni sua contrazione, me la sento in gola. E queste mie budella lucenti e permeabili: passano il cibo e io ho dei dolori. Dovrei uccidermi. È la migliore liberazione.

— Cerca conforto nella letteratura — consigliò l’apparizione. — Leggi. Un tempo leggevi. Eri assai istruito, Minner. Tremila anni di letteratura a disposizione. Parecchie lingue diverse. Omero. Chaucer. Shakespeare.

Burris guardò il viso sereno dell’uomo che era stato. Recitò: — Moder, merci; let me deye.

— «Madre, pietà, lasciami morire.» Finisci la strofa.

— Il resto non è pertinente.

— Finiscilo lo stesso.

Burris disse: — For Adam ut of helle beye and manken that is forloren.

— Muori, allora — disse blandamente il fantasma. — «Per riscattare dall’inferno Adamo e gli uomini perduti.» Altrimenti, vivi. Di’ un po’, Minner, ti prendi forse per Gesù?

— Egli patì per mano di stranieri.

— Per redimerli. Andrai a Manipol e morirai sulla soglia di quegli Esseri, per redimerli?

Burris alzò le spalle. — Non sono un redentore. Sono io che ho bisogno di essere redento. Sono ridotto male.

— Ricominci a piagnucolare? «Figlio, vedo il tuo corpo appeso, il tuo petto, le tue mani, i tuoi piedi trafitti…»

Burris fece un viso arcigno. Il suo nuovo viso andava benissimo per l’aria arcigna: le labbra si arricciavano in fuori, come un diaframma a iride quando si apre, scoprendo lo steccato regolarmente intervallato dei denti indistruttibili. — Che vuoi da me? — chiese.

— Tu, piuttosto, che vuoi?