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In un attimo la stanza si riempì di vicini, che facevano commenti sulle condizioni di Lenny e un sacco di domande. Come è successo? È stata una cosa rapida? Per caso la signora Dale voleva una teglia di tagliatelle al tacchino per la veglia funebre?

Sicuro, disse la signora Dale, le tagliatelle andavano benissimo. E si domandò se Tootie Greenberg avrebbe potuto preparare una di quelle torte ai semi di papavero come aveva fatto per Moses Schultz.

L’unità del pronto soccorso arrivò, guardò Lenny e fu d’accordo con l’opinione generale: Lenny Dale era morto stecchito.

Io sgattaiolai silenziosamente fuori dall’appartamento e me la filai verso l’ascensore. Non era neppure mezzogiorno e la mia giornata pareva già troppo lunga e troppo piena di morti. Quando arrivai nell’atrio telefonai a Vinnie.

«Sta’ a sentire» dissi «ho trovato Dale, ma è morto.»

«Da quanto?»

«Circa venti minuti.»

«Ci sono testimoni?»

«La moglie.»

«Merda» disse Vinnie. «È stata legittima difesa, vero?»

«Ma non l’ho ucciso io!»

«Sei sicura?»

«Be’, è stato un attacco di cuore, immagino di aver forse contribuito un pochino…»

«Dov’è lui, adesso?»

«Nel suo appartamento. Ci sono anche quelli del pronto soccorso, ma non possono fare assolutamente niente. È proprio morto.»

«Cristo, non potevi fargli venire l’attacco di cuore dopo averlo portato alla polizia? Questa sarà una gran seccatura. Non ti immagini neanche la quantità di scartoffie che c’è da compilare per cose del genere. Fa’ una cosa, vedi se puoi convincere i ragazzi del pronto soccorso a portare Dale al tribunale.»

La bocca mi si spalancò per lo stupore.

«Sì, così potrebbe andare» disse Vinnie. «Fa’ solo in modo che uno dei tizi dell’accettazione venga fuori a dare un’occhiata. Così poi ti darà una ricevuta per il cadavere.»

«Non ho nessuna intenzione di portare un povero vecchio morto alla polizia!»

«Che problema c’è? Pensi che abbia fretta di farsi imbalsamare? Mettila così: stai facendo una cosa buona per lui, sai, come una specie di “ultimo giro, ultimo regalo”.»

Per la miseria. Interruppi la comunicazione. Avrei dovuto tenermi tutta la confezione di ciambelle: la giornata cominciava a sembrare una di quelle in cui me ne sarei mangiate otto. Guardai il piccolo lampeggiante verde del cellulare. Dài, Ranger, pensai. Chiamami.

Uscii dall’atrio e mi diressi in strada. Dunphy «l’uomo della Luna» era il prossimo della lista. Il Luna abitava al Burg, un quartiere a un paio di isolati dalla casa dei miei genitori. Divideva la casetta a schiera con altri due tizi giù di testa quanto lui. L’ultima volta che ne avevo sentito parlare stava facendo un lavoro notturno, come magazziniere allo Shop Bag, e a quell’ora del giorno supponevo che fosse a casa a sgranocchiare patatine e a guardare le repliche di Star Trek.

Svoltai nella Hamilton, oltrepassai l’ufficio, voltai di nuovo a sinistra all’ospedale St. Francis per entrare nel Burg, e cominciai a girare attorno alle casette a schiera sulla Grant. Il Burg è’una zona di Trenton che da un lato è delimitata dalla Chambersburg Street e dall’altro si estende verso Italy. Dolcetti prelibati e pane alle olive sono articoli di prima necessità al Burg. Lì si usa dire «linguaggio dei segni» per indicare il dito medio rivolto dritto verso il cielo. Le case sono modeste, le automobili enormi, le finestre pulite.

Parcheggiai a metà dell’isolato e controllai sulla lista di avere il numero civico giusto. La schiera era composta di ventitré casette, tutte attaccate una all’altra, ognuna di due piani, con la facciata a ridosso del marciapiede. Il Luna abitava al numero 45 della Grant.

Spalancò la porta e mi guardò. Era alto poco meno di un metro e ottanta, aveva i capelli castano chiaro che gli scendevano fino alle spalle, con la riga in mezzo. Era magro e dinoccolato, indossava una T-shirt nera dei Metallica e un paio di jeans con buchi alle ginocchia. In mano teneva un vasetto di burro di arachidi e un cucchiaio: era ora di pranzo. Mi fissò con l’aria confusa, poi si illuminò e si diede un colpetto in testa con il cucchiaio, lasciando una pallina di burro di arachidi appiccicata ai capelli. «Cazzo, piccola! Mi sono scordato dell’udienza in tribunale!»

Era impossibile non adorare il Luna, e nonostante la giornataccia mi ritrovai a sorridere. «Già. Dobbiamo portarti di nuovo là e fissare un’altra udienza.» E io stessa sarei andata a prenderlo per accompagnarlo in tribunale, la prossima volta. Stephanie Plum, mamma chioccia.

«Cosa deve fare il Luna?»

«Vieni con me alla stazione di polizia e ti darò io una mano a sbrigare la faccenda.»

«Gran seccatura, piccola. Sono nel bel mezzo di una replica di Rocky and Bullwinkle. Non possiamo rimandare a un’altra volta? Ehi, dico, perché non resti a pranzo e ci guardiamo insieme il vecchio Rocky?»

Gettai un’occhiata al cucchiaio che teneva in mano. Probabilmente possedeva soltanto quello. «Apprezzo l’invito» dissi «ma ho promesso a mia madre che avrei pranzato con lei.» Quella che si dice una piccola, innocente bugia.

«Ehi, questo sì che è proprio carino. Mangiare con la tua mamma. Molto meglio.»

«Allora, che ne dici se io adesso vado a pranzo e poi torno a prenderti, diciamo fra un’oretta?»

«Grandioso. Il Luna lo apprezzerebbe molto, piccola.»

Scroccare il pranzo da mia madre non era una cattiva idea, ora che ci pensavo. Oltre al cibo avrei scoperto qualunque pettegolezzo stesse girando al Burg riguardo all’incendio.

Lasciai il Luna alle sue repliche e avevo già la mano sulla maniglia della portiera dell’auto quando una Lincoln nera accostò e si fermò accanto a me.

Il finestrino dal lato del passeggero si abbassò e un uomo guardò fuori. «Sei Stephanie Plum?»

«Sì.»

«Vorremmo fare due chiacchiere con te. Sali.»

Sì, certo: io dovrei salire su un’auto da impiegati della mafia con due strani tizi, uno dei quali è un pakistano con una calibro .38 infilata nella cintura dei pantaloni e nascosta solo in parte dal rotolo molle della pancia, e l’altro è uno che pare l’Incredibile Hulk con i capelli a spazzola. «La mamma mi ha detto di non accettare passaggi dagli sconosciuti.»

«Non siamo esattamente degli sconosciuti» disse Hulk. «Siamo proprio il tuo genere di ragazzi. Non è vero, Habib?»

«Proprio così» disse Habib piegando la testa verso di me e mostrando, con un sorriso, un dente d’oro. «Siamo nella media, comunque.»

«Che cosa volete?» domandai.

Il tizio sul sedile del passeggero tirò un gran sospiro. «Non hai intenzione di salire in macchina, vero?»

«No.»

«Va bene, la faccenda è questa: stiamo cercando un tuo amico. Solo che forse adesso non è più tuo amico. Forse anche tu lo stai cercando.»

«Mmm.»

«Così pensavamo che si potrebbe lavorare insieme. Sai, essere una squadra.»

«Non credo.»

«Va bene, allora non dovremo far altro che seguirti. Abbiamo pensato che fosse meglio dirtelo, in modo che tu non ti spaventassi, voglio dire, vedendo che ti stiamo alle calcagna.»

«Chi siete?»

«Quello lì al volante è Habib. E io sono Mitchell.»

«No, volevo dire: chi siete, per chi lavorate?» Ero abbastanza sicura di conoscere già la risposta, ma pensavo valesse comunque la pena chiedere.

«Preferiamo non divulgare il nome del nostro datore di lavoro» disse Mitchell. «A te non importa, comunque. Quello che ti interessa è sapere che non devi tenerci fuori da niente, perché altrimenti ci arrabbiamo.»

«Sì, e non è bello quando ci arrabbiamo» disse Habib ammonendomi con il dito. «Non bisogna prenderci sottogamba. Vero?» domandò guardando Mitchell, in cerca di approvazione. «In effetti, se tu ci fai arrabbiare noi spargiamo le tue budella per tutto il posto auto di mio cugino Muhammad, nel parcheggio del 7-Eleven.»