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— Ti ascolto.

— Ci sono degli alieni sulla Terra — dissi. — Esseri arrivati dalle stelle. Li ho visti, ho anche parlato con loro, e…

— Adesso capisco — mi interruppe il senatore. — È la notte tra venerdì e sabato, e ti sei preso una sbronza.

— Ti sbagli — protestai. — Sono assolutamente lucido.

— Hai preso la paga e sei uscito a divertirti.

— La paga, non l’ho neanche ritirata. Avevo troppe cose per le mani e me ne sono scordato.

— Ora ho la prova che sei ubriaco. Non è mai successo che tu abbia dimenticato di ritirare la paga. Sei sempre il primo a metterti in fila alla cassa…

— Dannazione Rog, ascoltami un momento!

— Tornatene a letto — concluse il senatore — e dormici sopra. Se poi vorrai ancora parlarmi, chiama domani. Di mattina.

— Ma va’ all’inferno! — gridai. Non poté sentirmi, perché aveva già riattaccato.

Avevo una voglia matta di sbattere giù il ricevitore, ma qualcosa me lo impedì. Forse un profondo senso di sconfitta, che ebbe l’effetto di farmi passare la rabbia.

Rimasi a giocherellare con il ricevitore, ascoltando il ronzio che arrivava dal cavo del telefono. Non c’era speranza. Nessuno mi avrebbe dato retta. Come se tutti fossero diventati degli Atwood, dei finti esseri umani, della stessa materia di quegli esseri che avevano invaso la Terra.

A ben pensarci, non era poi così paradossale. Poteva davvero succedere, anzi era proprio la cosa che gli alieni stavano cercando di fare. Ed eccomi qui seduto, con il ricevitore in mano, e con rivoli gelidi che mi attraversavano la schiena: l’ultimo uomo sulla Terra.

Isolato, almeno, lo ero sul serio.

E se il senatore Roger Hill non fosse stato più lo stesso che era, diciamo, cinque anni fa? Se il corpo del vero Roger Hill fosse stato nascosto in qualche angolo, mentre l’uomo con cui avevo appena finito di parlare era un falso senatore Hill? E se il Vecchio non fosse più stato lui ma una cosa orribile, che camminava come lui? E se l’amministratore delegato di qualche grande polo industriale non fosse più stato un essere umano? E se tutti i personaggi chiave, uno dopo l’altro, fossero stati sostituiti con dei falsi, così perfetti da farsi accettare da tutti, inclusi i familiari?

E se la donna che mi aspettava in macchina non fosse…

Follia, follia, mi dissi. Ridicolo. Solo fantasie frustrate di un cervello a pezzi.

Riabbassai il ricevitore e mi alzai tremando. Quindi scesi da Joy che mi aspettava.

28

La scritta luminosa, verde e rossa, di TUTTO OCCUPATO lampeggiava sul nero dell’asfalto della strada umida di pioggia, come per dare un allarme al mondo. Dietro occhieggiava la massa scura dei complessi residenziali dei motel, ognuno con la lampada sopra l’ingresso e di fronte la lucida distesa dei tettucci delle auto parcheggiate.

— Nessun posto… — disse Joy. — Sembra di essere ospiti sgraditi.

— Infatti.

Era già il quinto motel che passavamo, con TUTTO OCCUPATO. Non tutte le insegne erano intermittenti, però erano tutte ben visibili. E il loro significato era chiaro. Non c’erano possibilità di alloggio.

Cinque motel con l’insegna luminosa. Uno invece buio, abbandonato, chiuso per tutti.

Fermai, tra uno stridore di freni e una leggera scivolata. Osservammo l’insegna.

— Avremmo dovuto immaginarlo — disse Joy. — Sono tutti pieni di gente rimasta senza casa. Ci hanno preceduto, magari da settimane.

Pioveva ancora. Il tergicristallo cigolava.

— Forse è stata una cattiva idea — dissi. — Però, se…

— No. Nessuna delle nostre case, Parker. Ci morirei.

Ripartimmo. Altri due motel, stessa storia di prima.

— Impossibile — disse Joy. — Nessun posto, nessuno. E con gli alberghi sarebbe lo stesso.

— Uno c’era — dissi. — Quello che abbiamo superato prima, quello chiuso.

— Ma era tutto buio. Non c’è nessuno là.

— In compenso è un posto riparato. Se non altro, ci offrirebbe un tetto. Il tizio alla capanna sul lago ha rotto un lucchetto, nessuno ci impedisce di imitarlo.

Non arrivava nessuno, invertii marcia di colpo in mezzo all’isolato.

— Ricordi dov’era? — chiese Joy.

— Mi pare di sì.

In realtà, lo sbagliai di un paio di isolati, ma alla fine ci arrivai. Senza insegna, senza luci, deserto.

— Qualcuno l’ha comprato e chiuso — dissi. — La procedura è molto più facile e veloce che con gli appartamenti, dove occorre dare il preavviso.

— Lo credi davvero? — chiese Joy. — Credi che Atwood abbia rilevato anche questo posto?

— Chi altri? — domandai. — Se l’avesse comprato qualcun altro, pensi che l’avrebbe tenuto chiuso, con tutto il giro d’affari che si è creato?

Percorremmo il viale d’ingresso. I fari illuminarono un’altra macchina, parcheggiata di fronte a un edificio del complesso.

— Qualcuno ha avuto la nostra stessa idea — osservò Joy.

— Niente panico — le dissi.

Fermai la macchina nel cortile con i fari accesi, in direzione dell’altra automobile. Attraverso i vetri rigati di pioggia, vidi alcune facce che ci osservavano. Facce pallide e intimorite.

Smontai. Un uomo, sceso dall’altra macchina, mi venne incontro.

— Se cerca un alloggio, qui non c’è — mi disse.

Era di mezza età, ben vestito. Indossava un cappotto nuovo e un cappello di marca. Sotto il cappotto portava un abito scuro, da uomo d’affari. Il tutto un po’ spiegazzato. Sulle scarpe lucidate di fresco, le gocce di pioggia brillavano alla luce dei fari.

— Lo so che non ce n’è da nessuna parte — continuò. — E non da ieri, ma da un pezzo.

Scossi la testa, sentendo un senso di vuoto allo stomaco. Eccone un altro. Un altro.

— Sa spiegarmi che cosa sta succedendo? — mi chiese. — Non mi sembra un poliziotto. E poi, anche se lo fosse…

— Non lo sono — precisai.

Nella voce dello sconosciuto c’era una nota isterica. Era la voce di un uomo all’ultima spiaggia, che ha visto crollare il suo mondo personale costruito con fatica, pezzo per pezzo, giorno per giorno, senza poter far niente per arrestarne la rovina.

— Sono uno come lei, in cerca di un riparo — continuai, ricordando perché fossimo lì.

Spiace dirlo, ma non ci fece caso.

— Mi chiamo John A. Quinn — si presentò. — Sono il vicepresidente di una compagnia di assicurazioni. Guadagno quarantamila dollari l’anno, e tuttavia non possiedo un tetto per riparare la mia famiglia dalla pioggia. A parte la macchina, intendo.

Mi guardò sorpreso. — Perché non ride? — mi chiese. — Su, una bella risata!

— Non c’è niente da ridere — risposi.

— Abbiamo venduto casa circa un anno fa — proseguì Quinn. — Mantenendo il diritto di abitazione ancora per un bel po’. Mi diedero di più di quanto osassi sperare. Ce ne serviva una più grande. La famiglia cresceva. Certo ci dispiacque vendere la nostra vecchia casa. Era bella, e ci eravamo abituati. Ma avevamo bisogno di più spazio.

Annuii. La solita storia.

— Be’, però non restiamocene qui sotto la pioggia — dissi.

Sembrò che non mi avesse sentito. Aveva bisogno di parlare, per liberarsi dal gran peso che lo soffocava. Forse ero il primo a cui si potesse rivolgere in condizioni di parità, perché anch’io cercavo alloggio.

— Chi l’avrebbe pensato? — continuò. — Sembrava facile. Abbiamo avuto anche tanto tempo per cercare una nuova abitazione. Ma non ce n’erano. Leggevamo gli annunci sui giornali, e arrivavamo sempre troppo tardi. Le case erano vendute prima che noi potessimo arrivare all’agenzia. Cercammo di interessare un costruttore, ma nessuno si impegnava a consegnare prima di due anni. Ho perfino tentato di corrompere qualcuno, ma senza successo. Tutto già prenotato, risposero. È incredibile, perché molte imprese avevano centinaia di abitazioni in progetto!