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E io… io che intendevo fare?

Potevo tornarmene in ufficio, sedermi alla scrivania e buttare giù qualche articolo in vista del prossimo viaggio. Il viaggio! Chi ci pensava più. Era un pensiero buffo, che sembrò spuntare come un fungo, o emergere dalle nebbie di un’epoca immemorabile.

Ok allora, potevo tornare in redazione. Ma, in seconda battuta, a che scopo? A scrivere articoli che nessuno avrebbe mai letto, dato che nel giro di pochi giorni il giornale avrebbe smesso di uscire? Era tutto così dannatamente futile. La tentazione di rimuovere quel pensiero era foltissima. Forse era questo il profondo motivo per cui nessuno voleva ascoltare quella storia.

Lasciai cadere il biglietto di Joy sul pavimento. Andai alla sedia e afferrai la camicia, ancora non sapendo cosa avrei fatto. Prima però, di sicuro, dovevo vestirmi.

Uscii di casa e mi fermai sulla soglia, compiacendomi della bellissima giornata di sole, più primaverile che autunnale. Non pioveva più, il cortile era asciutto, salvo qualche piccola pozzanghera. Era quasi mezzogiorno.

Vidi la macchina dell’assicuratore vicino al secondo edificio, ma nessuna traccia di lui e dei suoi familiari. Era sabato, giorno di riposo, e probabilmente dormivano fino a tardi. Un riposo ben meritato, dopo tante traversie.

Vedendo l’insegna di un ristorante sulla strada, mi resi conto di aver fame. Di là potevo anche dare un colpo di telefono a Joy.

Era semplicemente una tavola calda, neppure troppo linda, ma il posto era affollato. Mi avvicinai al banco e dovetti attendere che un altro finisse, per prendere posto sul suo sgabello.

Ordinai, poi mi feci strada a spintoni verso la cabina telefonica, in un angolo. Composto il numero, introdussi i gettoni, e chiesi alla centralinista di passarmi Joy.

— Hai finito il pezzo? — le chiesi.

— Dormiglione — scherzò. — A che ora ti sei alzato?

— Poco fa. Che c’è di nuovo?

— Gavin è di umore nero. Sente odore di scoop nell’aria, ma non riesce a metterci sopra le zampe.

— A proposito di che?

— Non saprei — rispose Joy, già immaginando dove volessi andare a parare. — Pare che le banche siano a corto di liquidi. Per quanto ne sapp…

— A corto di liquidi! Ma se ieri Dow mi ha detto che traboccavano di contanti!

— Forse era vero ieri — disse lei — oggi non più. Sono scomparse grosse somme. Ieri a mezzogiorno ce le avevano, ma alla chiusura hanno constatato la scomparsa di ingenti capitali. Semplicemente svaniti.

— E nessuno canta — tirai a indovinare.

— Esatto. I contatti di Gavin e Dow cadono dalle nuvole. I pezzi grossi sono introvabili, sai come sono i banchieri di sabato.

— Tutti a giocare a golf o a pesca.

— Parker, pensi che c’entri Atwood?

— Non so — risposi. — Però non me ne stupirei. Darò un’occhiata in giro.

— Che pensi di fare? — mi chiese, alzando lievemente il tono.

— Potrei tornare a casa Belmont. Atwood ha detto…

— Non mi piace — disse seccamente. — Ci sei già stato una volta.

— Non mi esporrò, te lo prometto. So come maneggiare Atwood.

— Ti serve una macchina.

— Prenderò un taxi — risposi.

— Senza soldi?

— Dirò al taxista di aspettarmi per il ritorno. Poi lo pagherò al giornale.

— Pensi a tutto, eh?

— Più o meno.

Riagganciando, mi domandavo se ero veramente in grado di pensare a tutto.

30

Per prima cosa, notai che la finestra era stata chiusa. L’avevo lasciata aperta la sera prima, e mi ero sentito ridicolmente colpevole di quella mancanza. Adesso invece era chiusa, con tanto di tende, e cercai invano di ricordarmi se c’erano anche la sera prima.

La casa, alla luce del giorno, appariva in tutta la sua decrepitezza. Da est arrivava lo sciabordìo delle onde del lago. Non c’era nulla da temere, continuavo a ripetermi, era la solita vecchia villa con le ossa che biancheggiavano al sole.

— Allora, devo aspettarla? — mi chiese l’autista.

— Sì, non starò molto — risposi.

— Dottò, dipende da lei. Per me, fa lo stesso. Ricordi che il tassametro cammina.

Mi avviai lungo il vialetto. Le foglie secche crepitavano sotto le mie suole.

Decisi che avrei anzitutto tentato di farmi ricevere secondo le usanze civili, cioè suonando il campanello. Se non fossi riuscito a entrare in quel modo, sarei passato dalla finestra, come la sera prima. Forse l’autista si sarebbe chiesto casa facevo, ma non erano affari suoi. Lui doveva solo aspettare.

Tuttavia poteva darsi che la finestra fosse chiusa dall’interno. Ma non mi sarei arreso. Niente poteva fermarmi, benché, se me lo fossi chiesto, non avrei saputo spiegare perché sentissi tanta urgenza di vedere Atwood. Era l’istinto a spingermi? Era un tema a cui aveva accennato Joy… o era stato Atwood? Non ricordavo. Comunque, era l’istinto a portarmi verso di “lui”, senza uno straccio di idea di cosa gli avrei detto, o di che scopo mi prefiggessi?

Salii gli scalini, suonai il campanello, attesi. Mentre stavo per suonare di nuovo, udii dei passi nell’ingresso.

Mi tornò in mente che il campanello non funzionava la sera prima. Era addirittura mezzo staccato, e ballava sotto il mio dito mentre tentavo di suonarlo. Ora invece funzionava, e la finestra era stata chiusa, e qualcuno veniva ad aprire.

Mi aprì una ragazza. Una cameriera in grembiule nero, con colletto e crestina inamidati. Restai a bocca aperta. La ragazza non si mosse, in attesa che parlassi. Aveva uno sguardo sbarazzino.

— Desidero vedere il signor Atwood — dissi finalmente.

— Si accomodi, prego.

Anche dentro trovai una bella differenza. La notte precedente, c’erano polvere e disordine dappertutto, con lo scarso mobilio coperto da panneggi. Adesso aveva l’aspetto di una casa abitata. Niente più polvere, i pannelli di legno alle pareti e i pavimenti erano tirati a lucido. In un angolo, un attaccapanni vuoto, con accanto un grande specchio perfettamente terso.

— Dia a me — disse la cameriera, indicando cappello e cappotto. — La signora è nello studio.

— Ma era Atwood che…

— Il signor Atwood non c’è — mi disse.

Mi prese il cappello di mano, aspettando che le porgessi il cappotto. Glielo diedi.

— Da questa parte, prego — indicò quindi.

Attraverso una porta già aperta, passai in una camera ricoperta di scaffali pieni di libri. Vicino alla finestra, seduta a un tavolo, rividi la bionda glaciale che avevo incontrato al bar, quella che mi aveva dato il biglietto da visita con la scritta “Trattiamo qualsiasi affare”.

— Buongiorno, signor Graves — mi salutò. — Lieta di rivederla.

— Atwood mi ha detto di…

— Il signor Atwood, purtroppo, non è più con noi.

— E lei, naturalmente, aspira alla successione.

Avvertivo di nuovo la sua freddezza, e il profumo di violette. Era per metà una dea nordica, per metà una segretaria superefficiente. E ancora, una cosa da un altro mondo, e una bambola che avevo tenuto in mano.

— Stupito, signor Graves?

— Non molto. Ormai non mi stupisco più di niente.

— Speravamo che sarebbe venuto a parlare con Atwood. Abbiamo bisogno di gente come lei.

— Voi avete bisogno di me come io ho bisogno di una seconda testa — commentai.

— Perché non si accomoda, signor Graves? E per favore, non faccia sempre lo spiritoso.