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Attraversai di corsa il corridoio e poi le scale. Sfrecciai nell’atrio, uscii dal portone e salii in macchina. L’impresa di pompe funebri di Stiva era a circa tre chilometri sulla Hamilton Avenue. Mentalmente feci un inventario del mio equipaggiamento. Spray urticante e manette nella borsa. Probabilmente c’era anche la scacciacani, ma non era detto che fosse carica. La calibro .38 era a casa, nel barattolo dei biscotti. E avevo una limetta per unghie, in caso di corpo a corpo.

L’impresa di pompe funebri di Stiva si trova in un edificio bianco che una volta era una casa privata. Per venire incontro alle esigenze dell’attività sono stati aggiunti dei garage dove alloggiare i carri funebri e delle salette dove ospitare i vari defunti e i loro parenti e amici in visita. C’è anche un piccolo parcheggio. Le finestre hanno persiane nere e l’ampia veranda sul davanti ha un bel tappeto verde di quelli che vanno bene sia per gli interni sia per l’esterno.

Lasciai la macchina nel parcheggio e andai a grandi passi verso la porta principale. In veranda si era raccolto un gruppetto di uomini che fumavano e si raccontavano storielle. Erano semplici lavoratori, vestiti con abiti qualunque e con giri vita e stempiature che tradivano il passare degli anni. Li oltrepassai e mi diressi nell’atrio. La salma di Anthony Varga era composta nella Sala dell’Eterno Riposo numero uno. Caroline Borchek era nella Sala dell’Eterno Riposo numero due. Nonna Mazur era nascosta dietro un ficus finto nell’ingresso.

«È dentro con Anthony» disse la nonna. «Sta parlando con la vedova. Probabilmente la sta studiando, magari per farne la prossima vittima da ammazzare e nascondere nel capanno.»

C’erano una ventina di persone nella saletta che ospitava il corpo di Varga. Erano quasi tutti seduti. Alcuni stavano in piedi accanto alla bara. Eddie DeChooch era fra questi. Potevo entrare, avvicinarmi pian piano a lui e ammanettarlo. Probabilmente sarebbe stato il modo più facile di portare a termine il lavoro. Sfortunatamente si sarebbe creato un casino che avrebbe disturbato le persone in lutto per il defunto. Per di più, la vedova Varga avrebbe chiamato mia madre per riferirle lo spiacevole episodio. Le altre alternative erano avvicinarlo e chiedergli di seguirmi fuori, oppure aspettare che uscisse e incastrarlo nel parcheggio o nella veranda.

«Che si fa ora?» voleva sapere la nonna. «Entriamo e lo acciuffiamo?»

Sentii qualcuno respirarmi forte dietro le spalle. Era la sorella di Loretta Ricci, Madeline. Era appena arrivata e aveva visto DeChooch.

«Assassino!» gli gridò. «Hai ucciso mia sorella.»

DeChooch sbiancò in viso e barcollò all’indietro perdendo l’equilibrio e finendo addosso alla vedova Varga. Si aggrapparono entrambi alla bara per non cadere, ma la bara si inclinò pericolosamente sul carrello ornato da una balza e tutti rimasero con il fiato sospeso quando Anthony Varga scivolò di scatto su un lato, sbattendo la testa contro l’imbottitura di raso.

Madeline infilò la mano nella borsetta, qualcuno urlò che stava cercando la pistola e ci fu il fuggi fuggi. Alcuni si buttarono faccia a terra sul pavimento, altri scattarono lungo il corridoio verso l’ingresso.

L’assistente di Stiva, Harold Barrone, si lanciò su Madeline e la bloccò alle ginocchia facendola cadere sulla nonna e me. Rovinammo tutti a terra l’uno addosso all’altro.

«Non spari» urlò Harold a Madeline. «Si controlli!»

«Stavo solo prendendo un fazzolettino, imbecille» disse Madeline. «E si alzi, mi sta schiacciando.»

«E sta schiacciando anche me» disse la nonna. «Sono vecchia. Le ossa mi si potrebbero spezzare come ramoscelli secchi.»

Mi misi in piedi e diedi un’occhiata in giro. Niente Eddie DeChooch. Uscii sulla veranda dove erano gli uomini. «Qualcuno di voi ha visto Eddie DeChooch?»

«Sì» rispose uno di loro. «Eddie se ne è appena andato.»

«Da che parte è andato?»

«Verso il parcheggio.»

Scesi di corsa le scale e arrivai al parcheggio proprio mentre DeChooch si stava allontanando su una Cadillac bianca. Dissi qualche parolaccia a mo’ di conforto e partii subito all’inseguimento. Mi precedeva di circa un isolato, guidava lungo la linea di mezzeria e passava con il rosso. Prese per il Burg e pensai che forse stava andando a casa. Lo seguii lungo la Roebling Avenue, superò la strada che conduceva a casa sua. Le nostre erano le uniche auto sulla Roebling e capii che si era accorto di me. DeChooch non era tanto cieco da non vedere le luci nello specchietto retrovisore.

Continuò a zigzagare per il Burg, prendendo la Washington e la Liberty, per poi tornare indietro sulla Division. Immaginai che avrei continuato a inseguire DeChooch finché uno dei due non avrebbe finito la benzina. E poi? Non avevo né la pistola né il giubbotto antiproiettile. E non avevo nessuno che mi facesse da rinforzo. Avrei dovuto affidarmi alle mie capacità di persuasione.

DeChooch si fermò all’angolo tra la Division e la Emory e io feci lo stesso qualche metro dietro a lui. Era un angolo buio, senza illuminazione stradale, ma l’auto di DeChooch era bene in vista. DeChooch aprì la portiera, scese dall’auto malfermo sulle ginocchia e si chinò. Mi guardò un momento schermando con le mani la luce dei miei abbaglianti. Poi, come se niente fosse, alzò il braccio e sparò tre colpi. Pum. Pum. Pum. Due andarono a finire contro il marciapiede accanto alla mia macchina e uno colpì con un fischio metallico il paraurti anteriore.

Alla faccia della persuasione. Inserii la retromarcia e via a tavoletta. Voltai in Morris Street su due ruote, inchiodai con uno stridore di freni a uno stop, ingranai la prima e me ne andai via dal Burg come un razzo.

Avevo quasi smesso di tremare quando parcheggiai nel cortile sotto casa. Avevo appurato di non essermela fatta addosso e quindi, tutto sommato, ero quasi fiera di me stessa. C’era un brutto squarcio nel paraurti. Sarebbe potuta andare peggio, mi dissi. Lo squarcio avrebbe potuto essere nella mia testa. Stavo cercando di essere tollerante con Eddie DeChooch perché era vecchio e depresso, ma la verità era che cominciava a non piacermi.

I vestiti del Luna erano ancora nel corridoio quando uscii dall’ascensore, così li raccolsi mentre andavo nel mio appartamento. Mi fermai dietro la porta di casa e rimasi ad ascoltare. La TV era accesa. Sembrava sintonizzata su un incontro di boxe. Ero quasi sicura di averla spenta. Appoggiai la fronte sulla porta. Cos’altro mi aspettava?

Me ne stavo ancora lì in piedi con la fronte schiacciata contro la porta quando questa si aprì e Morelli mi salutò con un bel sorriso.

«Giornataccia, eh?»

Mi guardai intorno. «Sei solo?»

«Chi pensavi che ci fosse?»

«Barman, il fantasma di Natale, Jack lo Squartatore.» Buttai i vestiti del Luna sul pavimento dell’ingresso. «Sono un po’ stravolta. Ho appena avuto una sparatoria con DeChooch. Peccato che solo lui avesse la pistola.»

Raccontai a Morelli i dettagli scioccanti della vicenda e quando stavo per dirgli che non me l’ero fatta sotto, il telefono squillò.

«Stai bene?» voleva sapere mia madre. «Tua nonna è appena tornata a casa e ha detto che sei partita all’inseguimento di Eddie DeChooch.»

«Sto bene, ma ho perso DeChooch.»

«Myra Szilagy mi ha detto che stanno assumendo personale alla fabbrica di bottoni. E pagano anche i contributi. Probabilmente riusciresti ad avere un buon lavoro alla catena di montaggio. O magari anche in ufficio.»

Morelli era stravaccato sul divano e si era messo di nuovo a guardare la boxe quando riattaccai. Indossava una T-shirt nera e un pullover a maglia rasata color panna con un paio di jeans. Era asciutto, aveva muscoli sodi e il fascino misterioso dell’uomo mediterraneo. Era un bravo piedipiatti. Bastava che mi guardasse per farmi inturgidire i capezzoli. Ed era tifoso dei New York Rangers. Il che lo rendeva quasi perfetto… a parte il fatto di essere un piedipiatti.