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Annuisco e le stringo la mano; dopo un po’ riesco anche a far funzionare la bocca e a dirle: «Addio».

Stringo la sua mano per l’ultima volta, solo per un attimo.

L’albergo, che si trova all’estremità del lago, è pieno di animali imbalsamati: pesci conservati in bacheche di vetro, aquile, gatti selvatici e lontre dall’aspetto rognoso. Non conosco molte persone e mi pare che Yvonne mi eviti. Bevo un whisky, mangio qualche sandwich e me ne vado.

La pioggia continua, torrenziale; il tergicristalli va alla massima velocità, ma anche così la contrasta a malapena. L’umidità che si sprigiona dall’ombrello e dal cappotto sul sedile posteriore sta combattendo una battaglia ad armi pari con il riscaldamento e lo sbrinatore.

Ho percorso circa venti chilometri sulla strada a un’unica corsia che gira intorno alla montagna, quando il motore comincia ad avere problemi. Do un’occhiata al cruscotto: il serbatoio è mezzo pieno, nessuna spia accesa.

«Oh, no», gemo. «Su, bella, su, non mi piantare proprio adesso! Su, su.» Do qualche colpetto sul cruscotto, come per incoraggiarla. «Su, su…»

Sto per affrontare un tratto di strada in leggera salita che attraversa un vivaio della Forestale, quando il motore si esibisce in una passabile imitazione di me stesso al risveglio, tossisce per un po’, sputacchia… e poi muore.

Arrivo per inerzia a una piazzola, e lì mi fermo del tutto. «Oh, Cristo… Merda!» urlo, dando una manata sul cruscotto. Mi sento uno stupido.

La pioggia fa un rumore di mitragliatrice sul tetto.

Cerco di far ripartire il motore, ma questo si limita a dare un altro colpo di tosse.

Tiro la levetta che apre il cofano, mi metto il cappotto, prendo l’ombrello fradicio e scendo.

Il motore emette una scarica di ticchettii metallici e argentini. Dal collettore di scarico, dove cadono le gocce di pioggia, si alzano sottili fili di vapore. Controllo le candele e cerco un guaio molto evidente, tipo un filo staccato. Ma non trovo niente. (Nessuno, a quanto ne so, ha mai scoperto in situazioni del genere un guaio molto evidente.) Sento il rumore di un’auto, sbircio da dietro il cofano alzato e vedo una macchina che sta procedendo nella mia stessa direzione. Non so se arrischiarmi a fare un gesto oppure no. Decido di limitarmi a un’occhiata implorante. È una Micra mezza scassata. Al volante c’è un uomo.

Mi lampeggia e si ferma un po’ più avanti.

«Salve», dico, mentre lui apre la portiera e scende, infilandosi una giacca a vento e un cappello da cacciatore. Ha i capelli e la barba rossi. «Si è fermata improvvisamente», gli spiego. «Benzina ce n’è, ma si è spenta. Forse è colpa della pioggia…» Lascio la frase in sospeso perché improvvisamente penso: Cristo, potrebbe essere lui. Potrebbe essere Andy, potrebbe essere lui, travestito, che è venuto qui per me.

Che cosa sto facendo? Perché non ho aperto il bagagliaio e non ho preso il cric, quando la macchina si è fermata? Perché non ho con me una mazza da baseball, una bomboletta di gas paralizzante, un qualcosa? Lo fisso e penso: È lui. È lui. È dell’altezza giusta, ha la corporatura giusta. Fisso le sue guance, la barba rossa, cercando d’individuare un punto di giunzione, una traccia di colla.

«Eh, sì», borbotta, infilandosi le mani nelle tasche della giacca e voltandosi a guardare la strada. «Ha dello spray per contatti elettrici, amico?» Fa un cenno con la testa in direzione del motore. «Sembra proprio che ce ne sia bisogno», prosegue.

Continuo a fissarlo, con il cuore che batte all’impazzata. Ho un rumore assordante nella testa, e quasi non riesco a sentire che cosa dice. La voce non sembra la sua, ma Andy è sempre stato bravo a imitare accenti diversi. Il mio stomaco è un pezzo di ghiaccio e mi sembra che le gambe stiano per cedere da un momento all’altro. Continuo a fissarlo. Oh Cristo, Cristo, Cristo! Mi metterei a correre, però le gambe si rifiutano di muoversi. Comunque lui è sempre stato più veloce di me.

Mi scruta, aggrottando la fronte. D’un tratto ho la sensazione di avere un tubo davanti agli occhi: riesco soltanto a vedere la sua faccia, i suoi occhi, i suoi occhi, sono del colore giusto, hanno la forma giusta… Poi, all’improvviso, lui cambia, sembra raddrizzarsi, rilassarsi e, con una voce che riconosco, dice: «Ah, molto perspicace, Cameron».

Non vedo con che cosa mi colpisce; percepisco solo il braccio che ruota verso di me, veloce, appena visibile, simile a una serpe che attacca. Il colpo mi arriva sopra l’orecchio destro e mi fa stramazzare in una galassia di stelle tremolanti. Sento un brontolio sordo, come se stessi precipitando verso un’enorme cascata. Mentre cado, mi volto, crollo sul motore, però non mi faccio male, e scivolo, scivolo giù, cado nelle pozzanghere, picchio sull’asfalto… ma non sento dolore, neppure questa volta.

Oh, Dio mio, aiutami tu qui sull’isola dei morti fra le urla di chi soffre, qui nella casa dell’angelo della morte sommerso dall’odore acre degli escrementi e delle carogne che mi riporta nell’oscurità fino alla debole luce rossastra del luogo in cui non avrei mai voluto tornare, in quel nero inferno terreno costruito dall’uomo e in quel parco rottami umano lungo chilometri e chilometri. Quaggiù tra i morti, in mezzo alle anime tormentate e alle loro urla feroci e inumane, qui con il traghettatore, il battelliere, gli occhi coperti e il cervello in tumulto, qui con questo principe delle tenebre, questo profeta di rappresaglie, questo figlio geloso, vendicativo, implacabile del nostro regno di avidità, aiutami, aiutami, aiutami…

La testa mi fa male da impazzire, l’udito è come… annebbiato. Non è il termine adatto, ma è proprio così. Gli occhi chiusi. Prima erano chiusi con qualcosa, da qualcosa, ma ora non più, almeno non mi sembra. Percepisco una luce oltre le palpebre. Sono sdraiato su un fianco sopra qualcosa di duro, gelido e polveroso. Ho freddo, ho le mani e i piedi legati con una corda o con del nastro adesivo. Continuo a tremare, non riesco a controllarmi, sfrego con una guancia sul pavimento gelido e ruvido. Ho un cattivo gusto in bocca. L’aria ha un odore pungente e sento…

Sento i morti, sento le loro anime scorticate che gemono nel vento; nessuno le può udire a parte me, nessuno le può capire. La luce dietro le palpebre passa dal rosa al rosso al porpora fino al nero, ed è accompagnata da un brontolio che cresce fino a diventare un rumore violento e assordante che scuote la terra, riempie l’aria, martella le ossa; il buio diventa ancora più buio, un inferno nero e fetido, mamma papà oh no vi prego non riportatemi laggiù.

E sono qui, nell’unico luogo che ho sempre continuato a nascondere persino a me stesso: non penso a quel giorno freddo vicino al buco nel ghiaccio, né a quell’altro giorno nel bosco soleggiato vicino al buco nella collina — giorni che posso rinnegare perché ero io, ma non ero ancora la persona che sono diventato —, ma a quel giorno di diciotto mesi fa, il giorno del mio fallimento e della mia semplice, vergognosa incapacità di cogliere e di sfruttare la terribile forza di ciò che avevo davanti agli occhi, il luogo che ha messo a nudo la mia incompetenza, la mia assoluta inadeguatezza al ruolo di testimone.

Perché ero là, ne facevo parte, solo un anno e mezzo fa, dopo mesi e mesi di assillanti richieste, di blandizie e di moine a Sir Andrew, finalmente avevo avuto il permesso di andare; allo scadere dell’ultimatum, quando i camion, i cingolati e i carri armati erano pronti a partire, finalmente ottenni quello che volevo, ottenni di andare, mi fu data la possibilità di compiere il mio lavoro e di dimostrare di che stoffa ero fatto, la possibilità di essere un vero giornalista in prima linea, un vero corrispondente di guerra, un vero gonzo, drogato alcolizzato, edonista, che applicava la maniacale soggettività del benedetto sant’Hunter all’estremo capolavoro del terrore umano: la guerra moderna.