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I venti fischiavano nel buio.

Coraline temeva di andare a sbattere, così appoggiò di nuovo la mano sul muro. Questa volta sentì qualcosa di caldo e bagnato, come se avesse infilato la mano nella bocca di qualcuno, e con un piccolo gemito la ritrasse.

I suoi occhi si abituarono all’oscurità. Riusciva a scorgere, come chiazze vagamente luminescenti dinanzi a sé, due adulti, tre bambini. E sentiva anche il gatto, che camminava al buio davanti a lei.

E c’era anche un’altra cosa, che all’improvviso le sgambettò tra i piedi, e per poco non la mandò gambe all’aria. Coraline riuscì a riconquistare l’equilibrio e a evitare la caduta, sfruttando quello slancio per continuare ad avanzare. Sapeva che se fosse caduta in quel corridoio, forse non si sarebbe mai più rialzata. Qualunque cosa fosse stato quel corridoio, era sicuramente molto più vecchio dell’altra madre. Era fondo, lento, e consapevole della presenza di Coraline…

Poi apparve la luce del giorno, e lei corse verso quel bagliore, ansimante e con il fiato corto. — Ci siamo quasi — fu il suo grido incoraggiante, ma nella luce scoprì che gli spiriti erano spariti e che era di nuovo sola. Ma non aveva il tempo di fermarsi a indagare su cosa ne fosse stato di loro. Cercando di riprendere fiato, incespicò sulla soglia e si sbatté la porta alle spalle, con il botto più sonoro e piacevole che si possa mai immaginare.

Coraline chiuse la porta con la chiave, che poi ripose in tasca.

Il gatto nero era raggomitolato nell’angolo più remoto della stanza, mostrava la punta rosa della lingua e aveva gli occhi sbarrati. Coraline gli si avvicinò e si accovacciò accanto a lui.

— Mi dispiace — gli disse. — Mi dispiace di averti lanciato contro di lei. Ma era l’unico modo possibile per distrarla e uscire da lì. Non avrebbe mai mantenuto la parola, eh?

Il gatto alzò lo sguardo su di lei, poi le appoggiò la testa su una mano, leccandole le dita con la lingua rasposa. Quindi, cominciò a fare le fusa.

— Allora siamo amici? — disse Coraline.

Si sedette su una delle scomode poltrone di sua nonna, e il gatto le saltò subito sulle ginocchia, mettendosi comodo. La luce che entrava dalla finestra era quella del giorno, la luce di un vero e dorato tardo pomeriggio, non una bianca luce nebbiosa. Il cielo era azzurro come le uova di un pettirosso e Coraline vedeva gli alberi e, dietro gli alberi, le verdi colline che svanivano all’orizzonte fra il viola e il grigio. Il cielo non le era mai apparso tanto cielo, il mondo non era mai apparso tanto mondo.

Coraline guardò le foglie sugli alberi e i motivi che la luce e l’ombra disegnavano sulla corteccia screpolata del tronco del faggio davanti alla finestra, poi si guardò le ginocchia, guardò il modo in cui la piena luce solare accarezzava ogni pelo sulla testa del gatto, trasformando ogni singolo baffo bianco in oro.

Nulla, pensò, era mai stato tanto interessante.

E, rapita da tutti quegli interessanti aspetti del mondo, Coraline nemmeno si accorse di essersi rannicchiata come un gatto nella scomoda poltrona di sua nonna, e nemmeno si accorse di essersi addormentata e di essere sprofondata in un sonno profondo e senza sogni.

XII

Sua madre la svegliò scuotendola delicatamente.

— Coraline? — disse. — Tesoro, che strano posto per addormentarti. È proprio vero che questa è una stanza per le occasioni speciali. Ti abbiamo cercata in ogni angolo della casa.

Coraline si stirò e batté le palpebre. — Mi dispiace — disse. — Mi sono addormentata.

— Lo vedo — disse sua madre. — E questo gatto da dove arriva? Quando sono tornata era seduto dietro alla porta di casa. E quando ho aperto la porta, è uscito come un razzo.

— Forse doveva fare qualcosa — disse Coraline. Poi abbracciò sua madre, così forte che cominciarono a farle male le braccia. La madre ricambiò l’abbraccio.

— Si cena tra quindici minuti — disse. — Non dimenticare di lavarti le mani. E guardati i pantaloni del pigiama. Cosa ti sei fatta a quel povero ginocchio?

— Sono inciampata — disse Coraline. Andò nel bagno, si lavò le mani e si ripulì il ginocchio dal sangue. Si mise una pomata sui tagli e sulle abrasioni.

Poi andò in camera sua: la sua vera camera, la sua camera reale. Affondò le mani nelle tasche della vestaglia e tirò fuori tre biglie, un sasso con un buco in mezzo, la chiave nera e un globo con la neve, vuoto.

Agitò il globo e osservò la neve scintillante vorticare nell’acqua e riempire quel mondo vuoto. Lo posò e osservò la neve depositarsi sul fondo, coprendo il punto in cui un tempo c’era stata la minuscola coppia.

Coraline prese un pezzo di spago dalla scatola dei giocattoli e ci legò la chiave nera. Quindi ci fece un nodo e se lo appese al collo.

— Ecco — disse. Si mise qualcosa addosso e nascose la chiave sotto la T-shirt. Era fredda sulla pelle. Il sasso, invece, tornò in tasca.

Coraline attraversò il corridoio fino allo studio di suo padre. Lui le dava le spalle, ma lei sapeva che i suoi occhi, quando si fosse voltato, sarebbero stati quelli grigi e buoni di suo papà; gli si avvicinò di soppiatto e gli diede un bacio dietro la testa pelata.

— Ciao, Coraline — disse lui. Poi si voltò e le fece un sorriso. — Come mai questo bacio?

— Così — rispose Coraline. — Certe volte mi manchi. Tutto qua.

— Oh, bene — disse lui. Mosse il mouse del computer e cliccò su "sleep" quindi si alzò e, senza motivo, prese in braccio la figlia, cosa che non faceva da tantissimo tempo, da quando aveva cominciato a farle notare che era diventata troppo grande per farsi portare in braccio, e andarono in cucina.

Quella sera per cena c’era la pizza, e anche se era fatta in casa da suo padre (in certi punti la crosta era spessa, molle e cruda, in altri troppo sottile e bruciatai, e anche se lui l’aveva farcita con fettine di peperone verde, polpettine e, soprattutto, pezzetti d’ananas, Coraline mangiò l’intera fetta che le avevano messo nel piatto.

Be’, mangiò tutto tranne i pezzettini d’ananas.

E subito dopo fu ora di andare a letto.

Coraline tenne la chiave al collo, ma mise le biglie sotto il cuscino. E quella notte, a letto, fece un sogno.

Si trovava a un picnic, sotto una vecchia quercia, su un prato verde. Il sole era alto nel cielo e, anche se all’orizzonte si profilavano soffici nubi bianche, il cielo sopra la sua testa era di un azzurro calmo e profondo.

Sull’erba era disteso un bianco telo di cotone, con scodelle stracolme di cibo — riusciva a vedere insalate e tramezzini, noci e frutta, caraffe di limonata, d’acqua e di denso latte e cacao. Coraline sedeva da un lato della tovaglia mentre tre ragazzini occupavano gli altri. Erano vestiti in modo assai bizzarro.

Il più piccolo, seduto alla sinistra di Coraline, era una maschietto con i pantaloni alla zuava di velluto rosso e una camicetta bianca tutta volant. Aveva la faccia sporca e si stava riempiendo il piatto di patate lesse e di quello che sembrava un’intera trota fredda. — Che bellissimo picnic, signora — le disse.

— Sì — rispose Coraline. — È vero. Chissà chi l’avrà organizzato.

— Be’, credo che sia stata proprio tu, signorina — disse la ragazzina alta seduta di fronte a lei. Indossava un vestito marrone quasi privo di forma, e in testa portava una cuffia marrone annodata sotto il mento. — E noi siamo pieni di gratitudine, anche se le parole non riescono a esprimerla. — Mangiava fette di pane con la marmellata: con un lungo coltello e grande agilità di mano affettava una grossa pagnotta dalla crosta dorata, e con un cucchiaio di legno ci metteva sopra della marmellata viola. Aveva la bocca tutta sporca di marmellata.