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LA STORIA DI CORALINE

C’ERA UNA RAGAZZINA CHE SI CHIAMAVA MELA E CHE BALLAVA TANTO. BALLÒ E BALLÒ FINCHÉ I PIEDI NON LE DIVENTARONO SALZIZZOTTI. FINE.

La stampò e spense il computer. Poi fece il disegno di una ragazzina che danzava sotto le parole scritte sul foglio.

Si preparò un bagno con troppo bagnoschiuma, e la schiuma traboccò dal bordo della vasca inondando il pavimento. Si asciugò e asciugò il pavimento meglio che poté, poi andò a letto.

Coraline si svegliò nel cuore della notte. Andò nella stanza dei suoi genitori, ma il letto era vuoto e intatto. I numeri verdi che brillavano sulla sveglia digitale dicevano: 3:12.

Tutta sola, nel bel mezzo della notte, Coraline scoppiò in lacrime. Nell’appartamento vuoto non si sentivano altri rumori.

Salì sul letto dei genitori e dopo un po’ si riaddormentò.

Coraline venne risvegliata da fredde zampette che le toccavano il viso. Aprì gli occhi. Due occhioni verdi le restituirono lo sguardo. Era il gatto.

— Salve — disse Coraline. — Come hai fatto a entrare?

Il gatto non rispose. Coraline scese dal letto. Indossava una lunga T-shirt e i pantaloni del pigiama. — Sei venuto per dirmi qualcosa?

Il gatto si esibì in uno sbadiglio che gli fece brillare di verde gli occhi.

— Tu lo sai dove sono mamma e papà?

Il gatto le rispose con un lento battito di palpebre.

— Significa sì?

Il gatto batté di nuovo le palpebre. Coraline decise che doveva per forza significare sì. — Mi porteresti da loro?

Il gatto la guardò fisso. Poi uscì nel corridoio. Lei gli andò dietro. Il gatto arrivò in fondo al corridoio e si fermò davanti a uno specchio a figura intera. Molto tempo prima, lo specchio si trovava all’interno dell’anta di un armadio. L’avevano appeso lì solo dopo il trasloco e, sebbene la mamma di Coraline ogni tanto dicesse di volerlo cambiare con uno più nuovo, non l’aveva mai fatto.

Coraline accese la luce del corridoio.

Lo specchio rifletté il corridoio dietro di lei; cos’altro poteva aspettarsi di vedere? Ma, goffamente riflessi nello specchio, c’erano anche i suoi genitori. Sembravano tristi e soli. Mentre Coraline li guardava, la salutarono lentamente con un gesto della mano, senza troppa energia. Il padre di Coraline teneva un braccio attorno alle spalle di sua moglie.

La madre e il padre di Coraline guardavano la figlia attraverso lo specchio. Suo padre aprì bocca e disse qualcosa, ma lei non riuscì a sentire nemmeno una sillaba. Sua madre alitò all’interno dello specchio, e rapidamente, prima che la condensa si dissolvesse, scrisse:

ICATUIA

con il polpastrello dell’indice. La condensa all’interno dello specchio svanì, come pure i suoi genitori. Ora si vedeva solo il riflesso del corridoio, di Coraline e del gatto.

— Dove sono? — domandò Coraline al gatto. Il gatto non rispose, ma Coraline immaginò la sua voce, secca come una mosca stecchita su un davanzale d’inverno, che diceva: Be’, dove credi che siano?

— Non torneranno più, vero? — disse Coraline. — Non senza l’aiuto di qualcuno.

Il gatto si limitò a battere le palpebre. Coraline lo interpretò come un sì.

— Bene — disse. — Allora immagino che ci sia una sola cosa da fare.

Entrò nello studio di suo padre e si sedette alla scrivania. Quindi alzò la cornetta, aprì l’elenco telefonico e chiamò il commissariato di zona.

— Polizia — rispose una ruvida voce maschile.

— Pronto — disse Coraline. — Il mio nome è Coraline Jones.

— Non dovresti già essere a letto da un pezzo, signorina? — le disse il poliziotto.

— Può darsi — rispose Coraline, decisa a non lasciarsi fuorviare — ma sto chiamando per denunciare un crimine.

— E di che crimine si tratterebbe?

— Rapimento. Rapimento-di-due-adulti, per la precisione. I miei genitori sono stati sequestrati in un mondo che si trova dall’altra parte dello specchio che abbiamo nell’ingresso.

— E tu sai chi li ha sequestrati? — le domandò il poliziotto. Coraline percepì un sorrisetto nella voce dell’uomo e si sforzò di assumere un tono adulto, per costringerlo a prenderla sul serio.

— Credo che li tenga in pugno la mia altra madre. Forse vuole trattenerli e cucire loro due bottoni neri sugli occhi; oppure potrebbe trattenerli semplicemente per attirarmi di nuovo nelle sue grinfie. Non ne sono certa.

— Ah. Le nefande grinfie dei diabolici pugni, eh? — disse il poliziotto. — Mmm. Sai cosa ti suggerisco io, signorina Jones?

— No — disse Coraline. — Cosa?

— Chiedi a tua madre di prepararti la classica vecchia tazza di cioccolata calda, e poi di stringerti nel classico vecchio avvolgente abbraccio. Per scacciare gli incubi non c’è niente di meglio di una cioccolata calda e un abbraccio. E se comincia a rimproverarti perché l’hai svegliata a quest’ora della notte, be’, spiegale che te l’ha detto un poliziotto. — La sua voce era profonda e rassicurante.

Coraline, però, non si era affatto tranquillizzata.

— Quando la rivedrò — disse Coraline — glielo dirò. — E mise giù il telefono.

Il gatto nero, che era rimasto seduto sul pavimento a pulirsi il pelo per tutta la durata della conversazione, si alzò e fece strada lungo il corridoio.

Coraline tornò nella sua stanza e si mise la vestaglia azzurra e le pantofole, poi cercò una torcia sotto il lavandino. Ne trovò una, ma le batterie erano mezzo scariche già da un bel pezzo, e la luce che emetteva era ridotta a un pallido alone paglierino. La rimise a posto, trovò una cassetta con dentro le candele di cera bianca che servivano in-caso-d’emergenza, e ne sistemò una nel candeliere. E in ciascuna delle tasche della vestaglia mise una mela. Prese il mazzo di chiavi e tolse dall’anello quella nera.

Andò in salotto e guardò la porta. Aveva la sensazione che la porta ricambiasse lo sguardo; sapeva che era una stupidaggine, ma in fondo in fondo sapeva anche che era vero.

Tornò dunque nella sua stanza e rovistò nella tasca dei jeans. Trovò il sassolino con il buco in mezzo e se lo mise in tasca.

Accese lo stoppino della candela, lo guardò crepitare e poi spandere luce; quindi prese in mano la chiave nera. Era gelida al tatto. La infilò nella serratura della porta, ma non girava.

— Quando ero piccola — disse Coraline al gatto — e abitavamo nella nostra vecchia casa, molto ma molto tempo fa, papà mi portò a fare una passeggiata nel terreno abbandonato che separava casa nostra dai negozi.

«In realtà, non è che fosse il posto ideale per andare a spasso. Era pieno di cose che la gente aveva buttato via: vecchie cucine a gas, piatti rotti, bambole senza braccia e senza gambe, lattine vuote e bottiglie rotte. Mamma e papà mi fecero promettere di non andarci mai da sola durante le mie spedizioni, perché c’erano troppe cose taglienti e poteva venirmi il tetano e cose così.

«Ma io continuavo a dire che volevo esplorare quel posto. Così un giorno mio padre si mise i suoi stivaloni marrone e i guanti, poi mi infilò gli stivali, i jeans e un maglione, e andammo a fare un giro.

«Avremo camminato per una ventina di minuti. Scendemmo lungo un pendio, fin sotto un canalone dove scorreva un torrente, e di colpo papà mi disse: "Coraline, scappa. Risali il pendio. Subito!" Me lo disse con tono severo, disperato, così obbedii. Corsi su per il pendio. Mentre correvo qualcosa mi fece male al braccio, ma io non mi fermai.

«Arrivata in cima alla salita, sentii qualcuno che sfrecciava su per il pendio, dietro di me. Era mio padre, che correva come un rinoceronte alla carica. Quando mi raggiunse, mi prese in braccio e corremmo oltre la sommità della scarpata.

«Poi ci fermammo, ansimando e cercando di riprendere fiato, e guardammo di nuovo in fondo al canalone.