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Le cifre rosse dell’orologio digitale continuavano a scorrere, rosicchiando la vita di Surgenor, e lui le guardava come affascinato. Di tanto in tanto, una risata rauca o il rumore di un bicchiere che si rompeva lo raggiungeva dalla mensa, ma la loro frequenza diminuì, mentre il tempo concesso passava e l’alcool faceva effetto. Alcuni avevano deciso di trascorrere la loro ultima ora nella sala di osservazione. L’idea di unirsi a loro lo tentò parecchie volte, ma questo avrebbe significato prendere una decisione e metterla in pratica, e quello sforzo sembrava troppo grande. Un torpore pietoso si era impadronito di lui, trasformando le sue membra in pezzi di piombo privi di sensazioni, rallentando i suoi processi mentali sino al punto che gli ci voleva un minuto intero per completare un solo pensiero.

«Ho… visto… troppe… stelle».

Il bussare sommesso alla porta gli parve qualcosa che appartenesse a un altro luogo e a un altro tempo. Ascoltò senza comprendere, poi guardò l’orologio. Restavano venti minuti. Si alzò con uno sforzo, raggiunse la porta e l’aprì con dita incerte. Christine Holmes era in piedi nel corridoio, che lo guardava con occhi pieni di pena.

— Credo di aver fatto un errore — disse a bassa voce. — È tutto troppo…

— Non occorre che tu dica niente. Va tutto bene. — Spalancò la porta, facendola entrare, poi la chiuse di nuovo. Quando si voltò, Christine era in mezzo alla stanza, con la schiena rivolta verso di lui, le spalle curve. Andò da lei, e intuendo in qualche modo la cosa giusta da fare, la prese fra le braccia e la mise sul letto. Lei continuò a guardarlo, mentre le puliva la camicetta e i pantaloni dalla cenere e le si stendeva a fianco, prendendola fra le braccia. La baciò una volta, gentilmente, senza passione, prima di posare la testa sul cuscino. Lei sollevò un ginocchio in modo da appoggiarglielo sulla coscia. Nella stanza non si sentiva nessun rumore.

Restavano quindici minuti.

Christine sollevò la testa e lo guardò, e questa volta Surgenor trovò difficile scorgere tracce di durezza sulla sua faccia. — Non te l’ho mai detto. Mio figlio è morto appena prima di nascere. Ero in un cantiere su Newhome. Il dottore non c’era. Sentivo il bambino morire, ma non potevo aiutarlo. Era qui, dentro di me, e non potevo fare niente per aiutarlo.

— Mi dispiace.

— Grazie. Non l’ho mai detto a nessuno, vedi. Non sono mai riuscita a parlarne.

— Non è stata colpa tua, Chris. — Le fece appoggiare la testa sulla sua spalla.

— Se solo me ne fossi stata a casa. Se solo avessi aspettato Martin a casa.

— Non potevi saperlo. — Surgenor pronunciò la formula rituale di assoluzione senza alcun imbarazzo, poiché capiva che l’assoluta unicità di ogni essere umano e di ogni circostanza umana dava alle parole un nuovo significato. — Non pensarci.

«Non rattristarti ripensando a sfortune passate» pensò. «Non ora».

Dieci minuti.

— Martin non mi perdonò mai. Morì nel crollo di una galleria, ma questo successe quattro anni dopo che ci eravamo separati. Perciò ti ho detto una bugia stamattina, Dave. Non avevo un marito che è morto… mi ha lasciato per quello che avevo fatto, ed è morto qualche anno dopo. Da solo.

«Stamattina?» Per un attimo Surgenor restò sconcertato. «Ma di cosa sta parlando?» Ripensò agli avvenimenti recenti, e provò una sorta di torpido stupore accorgendosi che era passato meno di un giorno da quando era uscito dall’albergo, in una mattina chiara sotto un cielo azzurro, su un pianeta lontano trenta milioni di anni-luce. «Sono come in una morsa, fra il macrocosmo e il microcosmo. Cosa succederà quando il diametro delle mie pupille sarà inferiore alla lunghezza d’onda della luce?»

Cinque minuti.

«Tu non l’avresti fatto, vero, Dave? Non avresti dato tutta la colpa a me?»

— Non hai alcuna colpa, Chris. Credimi. — Perché le parole non restassero solo parole, Surgenor la strinse più forte fra le braccia, e sentì Christine stringersi a lui. «Non è brutto come prima» pensò con stupore. «Aiuta avere qualcuno…» Nessun minuto.

Nessun secondo.

Nessun tempo.

Il primo suono della nuova esistenza fu uno scampanio.

Fu seguito dalla voce di Aesop che faceva una comunicazione generale.

— … fuori non c’è niente. La nave e tutti i suoi sistemi sono intatti, ma fuori non c’è niente. Né stelle, né galassie, ne alcun genere di radiazioni… solo il buio. Pare che abbiamo un intero continuum tutto per noi.

18

Surgenor si ritrovò a correre verso la sala di osservazione.

Provava una gioia indicibile per essere ancora vivo contro tutte le previsioni, ma la sensazione era bilanciata da un nuovo timore, non ancora ben definito, e gli sembrava assolutamente indispensabile che guardasse l’universo con i suoi occhi. Due uomini, Mossbake e Kessler, uscirono barcollando dalla sala di osservazione, con un’espressione ottusa di trionfo e di sorpresa. Surgenor passò loro a fianco e raggiunse la balconata. L’oscurità che li circondava era completa. La guardò, assorbendone l’impatto psicologico, poi si sedette vicino ad Al Gillespie.

— È stato un fenomeno istantaneo — disse Gillespie. — Il cielo sembrava lo stesso fino all’ultimissimo istante. Poi ho avuto la sensazione che le stelle cambiassero colore… poi questo. Niente!

Surgenor guardò nell’oceano di notte, scrutando in tutte le direzioni, mentre i suoi nervi ottici registravano falsi bagliori luminosi, creando e distruggendo immediatamente galassie lontane. Solo con uno sforzo di volontà riuscì a trattenersi dallo scuotere la testa in segno negativo.

— Pare che la legge della conservazione sia sempre valida — disse Gillespie quasi a se stesso. — Materia ed energia non si distruggono. Quello che entra in un buco nero esce da un buco bianco. Quello che entra in un vortice… esce in un continuum tutto per lui.

— Abbiamo solo la parola di Aesop. Dove sono le stelle che ci devono aver preceduto?

— Non guardare me, amico.

— Ascolta queste parole, Aesop — disse Surgenor. — Come fai a sapere che i tuoi sensori funzionano a dovere?

— Lo so perché me lo dicono i miei triplici circuiti di controllo — rispose Aesop.

— La triplicazione non significa un bel niente, se ogni circuito ha subito la stessa avaria.

— David, stai esprimendo opinioni su un argomento molto complesso, e sul quale, secondo il tuo dossier personale, non hai alcuna qualifica o esperienza. — La scelta di parole operata dal computer tramutò un’affermazione di fatto in un rimprovero.

— Per quanto riguarda il passaggio attraverso un vortice — rispose Surgenor ostinato — io ho tanta esperienza quanta ne hai tu. E voglio andare a vedere dagli oblò.

— Non ho niente da obiettare. Anche se la richiesta è insolita.

— Bene! — Surgenor si alzò e guardò Gillespie. — Vieni anche tu?

Gillespie annuì e si alzò. I due lasciarono la sala. Mentre salivano si unì a loro Mike Targett, che pareva intuire dove fossero diretti. Raggiunsero il primo dei ponti occupati dal computer, dove i banchi dei dati geognostici occupavano file e file di armadietti metallici, poi si arrampicarono su una scaletta metallica poco usata, che conduceva alle unità centrali di elaborazione di Aesop.

Massicce porte a tenuta stagna si aprirono su una passerella circolare che passava a fianco di una foresta di cavi multicolori, la complessa spina dorsale che connetteva il cervello della Sarafand al suo corpo. Il computer vero e proprio era ancora sopra di loro, dietro a portelli che potevano essere aperti solo dalle squadre di manutenzione. Lungo la passerella, a quattro punti equidistanti, vi era una serie di oblò circolari che permettevano una visione diretta dell’esterno. I progettisti di astronavi avevano una forte avversione a praticare buchi negli scafi pressurizzati, e nel caso della Classe Sei avevano previsto a malincuore quattro piccole finestre trasparenti in una parte della nave che poteva essere sigillata ermeticamente dagli altri livelli.