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— Davvero? — Desanto rivolse agli altri un sorriso timido. — Forse Billy Narvik ha avuto l’idea giusta.

— Narvik era drogato, ed è caduto per errore.

— Tu non c’eri — intervenne Schilling. — Si è lanciato in volo. Lui voleva farlo, te lo dico io.

Gillespie sbuffò impaziente. — Narvik è il solo che possa darci una risposta, perciò se vedete il suo fantasma uscire dal ripostiglio fatemelo sapere, va bene?

— Studiò le facce degli altri, per assicurarsi che il suo sarcasmo non fosse andato sprecato. — E finché non succede, gradirei dedicarmi ai vivi, d’accordo?

Desanto alzò ancora la mano. — Cosa rispondi, Al? Come deve fare chi vuole farla finita in fretta? Glieli fornirà Aesop i mezzi?

— Per l’ultima volta…

— È una domanda legittima — disse Surgenor a bassa voce. — Penso che abbia diritto a una risposta.

Gillespie assunse un’espressione risentita. — Tanto per cominciare, Aesop non ha medicine di questo genere fra le sue scorte. È programmato per tornare alla più vicina base del Servizio nel caso che qualche uomo contragga una malattia seria.

— Ecco la soluzione! — Victor Voysey spalancò le braccia. — Qualcuno dovrebbe farsi venire un’appendicite, e Aesop sarebbe costretto a riportarci a casa!

— In ogni caso — continuò Gillespie, ignorando l’interruzione — Aesop non aiuterà mai un uomo a uccidersi, in qualunque circostanza.

— Proviamo a chiederglielo, tanto per essere sicuri.

— No! — La voce di Gillespie era dura. — Lo scopo di questa riunione è di discutere sul modo migliore per restare vivi. Chiunque voglia parlare con Aesop su come suicidarsi, può farlo in privato, nella sua stanza, ma mi pare che qualunque imbecille dovrebbe essere capace di arrangiarsi, senza l’aiuto di uno schifosissimo computer. Mi sembra che non ci voglia poi una grande immaginazione, e che chiunque voglia ammazzarsi davvero, possa farlo senza tanto baccano e senza farci perdere tempo alle riunioni.

— Grazie, Al. — Desanto si alzò e fece un piccolo inchino. — Mi scuso per aver sprecato un po’ del vostro prezioso tempo. — Spinse indietro la sedia, raggiunse la scaletta e salì verso le cabine, annuendo pensosamente fra sé.

— Qualcuno dovrebbe andare a vedere cosa fa — disse nervosamente Mossbake.

— Non ce n’è bisogno — replicò Gillespie. — Wilbur non si ammazzerebbe neppure se ne andasse della sua vita. Lo conosco. Si è offeso perché l’ho trattato male.

La riunione riprese in un’atmosfera nettamente diversa da prima. Perfino Schilling votò a favore delle mozioni finali. Surgenor, nonostante le sue riserve, dovette ammettere che il metodo rigido adottato da Gillespie era servito a dare un po’ di disciplina. Al faceva quello che lui stesso aveva fatto tante volte nel passato: occupare il vuoto di comando, rendersi un bersaglio tangibile ed identificabile per le emozioni negative che gli esseri umani provano sempre quando le cose cominciano ad andare storte.

Era una posizione coraggiosa, date le circostanze. La nave non era che una sottile bolla di luce e di calore, circondata da un nero oceano di vuoto, e non c’era altra prospettiva se non quella di un peggioramento continuo, finché il capitano e i suoi allegri marinai non sarebbero stati tutti morti. C’era da aspettarsi un sacco di emozioni negative prima della fine.

— Credo che per oggi basti — disse Gillespie un’ora dopo, guardando l’orologio. — È l’una passata, ed è ora che andiamo a riposare.

— Direi proprio — grugnì Kessler. Tutti si alzarono, guardandosi l’un l’altro incerti.

Gillespie diede un colpo di tosse per richiamare l’attenzione. — Un’ultima cosa. Il razionamento dei liquori che abbiamo votato si applica alle riserve ufficiali della nave, non a quelle personali. Non so se mi spiego.

Si alzò subito un brusio eccitato. Gli uomini, che avevano accettato a malincuore l’austerità, si vedevano offrire la prospettiva inattesa di un’ultima sbornia, in grado di offrire loro un po’ di pace e di oblio. Coloro che non avevano riserve personali di intossicanti guardavano speranzosi quelli che notoriamente ne erano forniti, e cominciarono ad affollarsi intorno a loro con offerte di sigari e di dolci fatti in casa, senza i quali, affermavano, nessuna festa poteva riuscire. L’allentarsi della tensione, unita alla consapevolezza che la pausa sarebbe stata di breve durata, indusse i più giovani, come Rizno e Mossbake, a una rumorosa ilarità.

— Bel colpo — mormorò Surgenor a Gillespie. — Non c’è niente come i postumi di una sbronza carnevalesca per rendere attraente l’idea della quaresima.

Gillespie annuì con aria soddisfatta. — Ho una bottiglia di cognac nella mia stanza. Andiamo a dividercela?

Surgenor annuì, guardando Christine Holmes, che si era separata dagli altri e stava salendo la scaletta. Improvvisamente, rendendosi conto di dove stava andando, si scusò e la seguì in fretta. Salì i gradini due alla volta, entrò nel corridoio e la trovò vicino alla porta numero 4 con le orecchie tese. Era la stanza di Wilbur Desanto.

— Ho bussato un paio di volte — disse quando le si fermò vicino. — Non risponde.

Surgenor spalancò la porta. La stanza era quasi completamente buia, tranne che per la luce proveniente da un micro-lettore che proiettava una pagina sul soffitto. Desanto era steso sul letto, immobile, con la faccia voltata verso la parete. Surgenor accese la luce, e Desanto si sollevò su un gomito, con un sorriso forzato.

— Che c’è? La riunione è finita?

— Perché non hai risposto quando ho bussato? — chiese Christine da dietro le spalle di Surgenor.

— Credo di essermi appisolato. Ma perché tanta agitazione?

— C’è una festa in corso di sotto, se la cosa ti interessa. — Surgenor chiuse la porta, e guardò Christine, che aveva un’espressione infuriata sulla faccia.

— Scommetto che l’ha fatto apposta — mormorò duramente. — E io ci sono cascata.

— Non è il caso di metterla in questi termini; non sei cascata in un bel niente.

— Surgenor intuì che correva un rischio, ma continuò. — Credevi che avesse cercato di uccidersi, ed eri preoccupata per lui, anche se lo conoscevi appena. È un bene, Chris, dimostra che…

— Che sono ancora umana? Nonostante tutto? — La donna quasi sorrise, cercando le sigarette. — Fammi un favore, Dave, dimenticati che sono venuta nella tua stanza. Le ritrattazioni sul letto di morte non valgono un accidente.

Surgenor girò la testa, sentendo Gillespie salire le scale. — Al ed io stappiamo una bottiglia di brandy. Non vuoi…

— C’è più baldoria di sotto. — Si allontanò da lui, passò a fianco di Gillespie e scese la scaletta, aiutandosi da esperta con le braccia in modo da scendere quasi in scivolata.

— Ehi, Dave, che cosa hai in mente? — chiese Gillespie, lanciandogli un’occhiata perplessa.

— Di cosa stai parlando? — Surgenor si ricordò di come l’aveva guardato Billy Narvik dopo la loro lotta, in quello stesso corridoio, e venne assalito dall’indignazione. — Cosa ti viene in mente, Al? Ti sembra forse il mio tipo?

— Non sembra il tipo di nessuno, ma non c’è altro da queste parti.

— È tutta scena, sai. Chris ha passato dei brutti momenti, e non vuole correre il rischio che gli succeda ancora, perciò… — Surgenor preferì lasciar perdere, vedendo Gillespie alzare le sopracciglia. — Ma che ce ne stiamo a fare qui? Vogliamo far invecchiare il brandy?

Entrarono nella cabina a fianco di quella di Desanto, e Gillespie tirò fuori due bicchieri e una bottiglia nuova fiammante di brandy distillato. — Me lo tenevo per bermene un bicchierino ogni sera. Doveva durare trenta giorni, ma preferisco vederla sparire in una sera, e dimenticare le razioni.