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«So la verità» disse dentro di sé «ma non devo pensarci, perché l’Uomo Grigio è telepatico, e se riesce a scoprire quello che sto pensando…»

La mano di Voysey colpi con forza la leva dell’acceleratore, e il modulo cominciò ad avanzare.

«…l’Uomo Grigio verrebbe a sapere che… Nooo! Pensa a qualunque altra cosa. Pensa al passato, al passato lontano, a quando andavi a scuola, alle lezioni di storia, alla storia della scienza… la natura quantistica della gravità venne finalmente provata nel duemilasessantatré, e la successiva scoperta del gravitone portò direttamente alla comprensione dello spazio-beta, e di conseguenza allo sviluppo del metodo per viaggiare a velocità superiore a quella della luce… ma nessuno in realtà capisce cosa sia lo spazio-beta… nessun essere umano, cioè… solo… per poco non ci cascavo… per poco non pensavo a… non posso farne a meno… Aesop!»

La distanza che separava Candar dall’astronave era tale che, se si fosse trovato più in forma, avrebbe potuto superarla in due salti. In quelle condizioni, ci avrebbe messo un po’ di più, ma sapeva di essere troppo veloce perché qualcosa potesse fermarlo. Alle sue spalle, un po’ più lentamente di quanto si fosse aspettato, le due macchine che aveva preso sotto controllo si stavano muovendo verso la nave. Una delle creature-cibo stava cercando inutilmente di sopprimere un pensiero, ma non c’era tempo per studiarne il significato…

Mutando la propria forma mentre si muoveva, Candar raggiunse senza difficoltà la distanza di controllo. Esultante, colpì col cervello, lanciando la sua rete invisibile di forza mentale che paralizzava tutte le creature inferiori.

Niente!

Un raggio ultralaser lo colpì con una violenza tale da disintegrare qualsiasi altra creatura nel giro di pochi microsecondi. Ma Candar non poteva morire così facilmente. Il dolore era più grande di quanto avesse mai potuto immaginare, ma più terribile ancora era l’improvvisa, limpida comprensione delle menti delle creature-cibo… quelle menti fredde e aliene.

Per la prima volta nella sua vita, Candar ebbe paura.

Poi morì.

Lo champagne era buono, e così pure la bistecca; ma più apprezzabile ancora sarebbe stata, più tardi, una bella dormita.

Surgenor si appoggiò beatamente allo schienale della sedia, accese la pipa e guardò gli undici uomini seduti al lungo tavolo nella mensa della Sarafand. Durante il pranzo aveva preso una decisione, e sapeva, con un senso di calore nello stomaco, che quella era la decisione giusta per lui. Aveva deciso che gli piaceva fare la parte del Membro Anziano. Giovani brillanti potevano anche prenderlo in giro nei loro libri di ricordi spaziali; i suoi cugini potevano rilevare la sua parte nell’impresa… lui sarebbe rimasto nel Servizio Cartografico, finché non avesse saziato la sua mente e la sua anima con la vista di nuovi mondi. Era la sua vita, e non aveva intenzione di abbandonarla.

All’altro lato del tavolo, Clifford Pollen stava prendendo appunti sugli ultimi avvenimenti.

— Secondo te, allora — disse Pollen — l’Uomo Grigio era semplicemente incapace di comprendere una filosofia fondata sulla costruzione delle macchine?

— Esatto. Un Uomo Grigio, a causa delle sue particolari proprietà fisiche, non saprebbe cosa farsene di una macchina. E migliaia di anni passati su Prila I, dove nessuna macchina potrebbe sopravvivere, hanno probabilmente condizionato la sua mente a un punto tale che il nostro modo di vivere basato sulle macchine doveva apparirgli incomprensibile.

Surgenor assaporò una buona boccata di fumo e provò un inaspettato moto di simpatia per il massiccio essere i cui resti giacevano ancora sulla roccia nera del pianeta che si erano lasciati alle spalle. La vita doveva essere molto preziosa per un Uomo Grigio, perché fosse disposto ad affidarla a qualcuno o a qualcosa che non fosse lui stesso. Era questa la ragione fondamentale per cui aveva compiuto l’errore di cercare di controllare l’entità che l’equipaggio della Sarafand chiamava Capitano Aesop.

Chiedendosi come si fosse sentito l’Uomo Grigio nell’istante finale in cui aveva capito la verità, Surgenor gettò un’occhiata alla piccola targhetta sul più vicino terminale del complesso computerizzato centrale della nave, l’intelligenza artificiale a cui erano affidate le loro vite all’inizio di ogni missione, la targhetta diceva:

A.E.S.O.P.

Surgenor aveva sentito alcuni dire che le iniziali stavano per Advanced Electronic Spaceship Operator and Pilot (Operatore e Pilota Elettronico per Astronavi Perfezionato), ma nessuno ne era sicuro. Gli esseri umani, pensò, tendono a dare un sacco di cose per scontate.

3

Lo spazio aveva vari modi per punire quelli che vi si avventuravano.

Il pericolo fisico era sempre presente, come una minaccia ripetuta continuamente, eppure non era l’ambiente a preoccupare maggiormente viaggiatori. Lo spazio era ostile alla vita umana, ma era molto più disposto a perdonare gli errori di altri ambienti, come per esempio le profondità dell’oceano, in cui gli uomini avevano imparato a lavorare e a vivere con tranquillità quasi assoluta. La sua arma più potente era, semplicemente, la grandezza.

Non bastava andare sulla cima di una collina, in una notte senza luna, a scrutare il cielo per essere preparati alla realtà di un viaggio spaziale: un osservatore terrestre vedeva solo le stelle, non quello che le separava. Esse risplendevano, riempiendogli gli occhi, e lui non aveva altra scelta che assegnare loro una posizione importante nello schema cosmico. Chi viaggiava nello spazio vedeva le cose in modo diverso. Si rendeva conto che l’universo consisteva soprattutto di vuoto, che i soli e le nebule erano cose quasi irrilevanti, che le stelle erano poco più di uno sbuffo di vapore che si spandeva nell’infinito. E prima o poi quella consapevolezza cominciava a essere dolorosa.

Si verificavano raramente casi di psicosi, fra i membri del Servizio Cartografico (a quello ci pensava la selezione preliminare), e non capitava spesso che i piloti dei moduli di esplorazione si lasciassero andare a considerazioni filosofiche sul significato della loro esistenza, ma la tensione imposta da quella vita pesava lo stesso su di loro. La solitudine e la nostalgia erano le loro malattie professionali. Il Servizio esplorava solo mondi disabitati, e ben presto gli equipaggi non ne potevano più di vedere deserti, distese rocciose e tundre, e giungevano al punto di pregare che succedesse qualcosa di imprevisto, anche se questo doveva comportare difficoltà e pericoli. Ma gli incidenti erano così rari che un semplice guasto meccanico offriva loro materiale di conversazione per parecchi mesi.

Non c’era quindi da stupirsi se gli uomini, finiti i due anni previsti dal contratto, restavano solo un altro anno per provare a se stessi e agli amici che avrebbero potuto continuare finché volevano, intascavano la liquidazione e si dedicavano a lavori che permettessero loro di restarsene a casa.

Alcuni, come Dave Surgenor, riuscivano a restare nel Servizio, malgrado i rischi emotivi e intellettuali. La Sarafand, come molte altre navi, aveva un gruppo di veterani il cui compito era quello di accompagnare i membri meno esperti sui moduli e di assisterli durante il loro tirocinio. Inoltre svolgevano un servizio preziosissimo, anche se privo di riconoscimento ufficiale: quello di creare una identità stabile di gruppo nella quale i nuovi membri potessero inserirsi. Surgenor aveva visto dozzine di uomini (e una volta anche una donna) andare e venire, e col passare degli anni aveva sviluppato un atteggiamento da zio burbero di fronte ai loro problemi di adattamento. Anche se qualche volta si lamentava per l’imprudenza dei novizi, doveva ammettere che la loro presenza aiutava ad alleviare la monotonia della vita di bordo.