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Ritornai all’Abbazia e passai la notte in ginocchio a pregare per avere un segno che mi illuminasse. Ma i Santi non vollero pronunciarsi. Dopo le preghiere mattutine mi recai con cuore pesante dall’Abate e gli riferii quanto aveva ordinato il Barone. L’Abate si incollerì perché non gli veniva concesso di comunicare immediatamente con le autorità ecclesiastiche, ma decise che per il momento era meglio obbedire. Io fui liberato da altre incombenze acciocché potessi studiare il modo migliore per riuscire a conversare col Demone.

Così mi accinsi all’impresa e scesi nella cella dove era confinato. Situata per metà sottoterra, era una stanza stretta, che veniva usata per le penitenze. Fratello Thomas, il nostro fabbro, aveva incassato dei ceppi nel muro e vi aveva incatenato quell’essere. Ora questi era sdraiato su un giaciglio di paglia: uno spettacolo spaventoso in quella penombra.

Gli anelli della catena stridettero quando il mostro si alzò vedendomi entrare. Accanto a lui, ma fuori dalla sua portata, c’erano le nostre reliquie nelle loro custodie: il femore di Sant’Osberto e il sedicesimo molare di San Guidubaldo che dovevano impedirgli di liberarsi dei ceppi e fuggire nell’Inferno.

Anche se devo ammettere che non ne sarei rimasto tanto spiaciuto se l’avesse fatto.

Mi feci il segno della croce e mi sedetti accanto a lui. I suoi occhi gialli sprizzavano lampi. Avevo portato con me carta, inchiostro e penne per mettere alla prova il mio, sia pur limitato, talento nel disegno. Schizzai la figura di un uomo e dissi: «Homo,» perché mi sembrava più saggio insegnargli il latino che qualsiasi altra lingua limitata ad una sola nazione. Poi disegnai un altro uomo e gli feci vedere che i due ora venivano chiamati homines. Continuai così, e lui fu lesto ad apprendere.

Poco dopo mi fece cenno di porgergli la carta, ed ancora gliela porsi. Quindi disegnò la propria figura con grande abilità. Mi disse che il suo nome era Branithar e che la sua razza si chiamva Wersgorix. Non mi riuscì di trovare questi termini in alcun trattato di demonologia ma, da quel momento, lasciai che fosse lui a guidare i nostri studi, perché la sua razza aveva fatto dell’apprendimento delle nuove lingue una scienza. Da allora il nostro lavoro procedette speditamente.

Lavorai per lunghe ore con lui e, nei giorni che seguirono, vidi poco del mondo esterno. Sir Roger continuò a mantenere interrotte le comunicazioni con i suoi vicini. Penso che il suo maggior timore fosse quello di vedere che qualche Conte o Duca veniva a portagli via la nave per appropriarsene. Il Barone trascorse parecchio tempo a bordo coi suoi uomini più audaci, cercando di comprendere tutte le meraviglie che incontrava.

In breve tempo Branithar fu in grado di lamentarsi della dieta a base di pane ed acqua, e di minacciare vendetta di tutti i generi. Io avevo ancora paura di lui, ma gli opposi una gran risolutezza. Naturalmente la nostra conversazione era molto più lenta di come riportata qui, con molte pause mentre cercavamo di trovare le parole giuste.

«Tutto questo ve lo siete cercati,» gli dissi. «Avreste dovuto sapere bene che non era il caso di scatenare un attacco senza alcun motivo contro dei Cristiani».

«Chi sono i Cristiani?», mi chiese.

Perplesso, pensai che dovesse fingere la sua ignoranza e, per prova, gli feci recitare con me il Paternoster. Ma lui non svanì in una nuvola di fumo, e questo fatto mi turbò.

«Credo di capire,» mi disse, «tu ti riferisci a qualche primitivo pantheon tribale».

«Oh, no, non è una cosa così pagana!», esclamai indignato.

Allora cominciai a spiegargli la Trinità, ma ero appena arrivato alla transustanziazione, che mi fece un gesto di impazienza con la sua mano azzurra. Per il resto era una mano del tutto umana, solo che aveva delle unghie spesse e aguzze.

«Non importa,» disse. «I Cristiani sono tutti feroci come la tua gente?»

«Oh, avreste certamente avuto miglior fortuna coi Francesi.» ammisi. «La vostra sfortuna è stata di capitare tra gli Inglesi.»

«Una razza ostinata!», convenne. «Ma vi costerà caro. Però, se mi liberate immediatamente, vedrò di mitigare la vendetta che sta per ricadere su di voi.»

La lingua mi si incollò al palato, ma riuscii a staccarla ed a chiedergli abbastanza freddamente di spiegarsi meglio. Da dove veniva e quali erano le sue intenzioni?

Gli ci volle un po’ di tempo per chiarire il suo pensiero perché i concetti erano diversi. Io naturalmente pensai che mentisse, ma almeno, così facendo, lui imparò ancora dell’altro Latino.

Fu dopo due settimane dal giorno dell’arrivo della nave, che Sir Owain di Montbelle comparve nell’Abbazia e chiese un colloquio con me. Ci incontrammo nel giardino del chiostro e, trovata una panchina, ci sedemmo.

Questo Owain era il figlio minore, grazie al secondo matrimonio con una donna gallese, di un piccolo Barone delle Marche. Suppongo che l’antico conflitto di due diverse discendenze divampasse stranamente nel suo petto; ma era presente anche il fascino dei Gallesi. Diventato paggio e poi scudiero di un Cavaliere della Corte Reale, il giovane Owain aveva conquistato il cuore del suo Signore ed era stato allevato con tutti i privilegi che competevano a ranghi molto più elevati del suo. Aveva viaggiato molto all’estero, era diventato un trovatore di una certa rinomanza, gli era stato conferito il titolo di Cavaliere… e poi, improvvisamente, ecco che si era tovato senza un penny in tasca.

Così nella speranza di guadagnarsi una fortuna, era giunto fino ad Ansby per unirsi all’esercito. Per quanto, però, fosse valoroso, era troppo tenebrosamente bello per il gusto della maggior parte degli uomini i quali dicevano che nessun marito si sentiva sicuro quando lui era d’attorno. Questo non era del tutto vero, però, perché Sir Roger aveva preso in simpatia il giovane, ammirava il suo giudizio come la sua istruzione, ed era ben felice che Lady Catherine avesse qualcuno con cui parlare delle cose che più la interessavano.

«Mi manda il mio Signore, Fratello Parvus», cominciò Sir Owain. «Egli desidera sapere quanto tempo ancora ti occorre per domare il mostro che tieni qui».

«Oh… ormai parla abbastanza scioltamente,» gli risposi, «ma si attiene con tanta fermezza a delle falsità così evidenti ed assolute che non mi è ancora parso opportuno riferire quanto ho appreso».

«Sir Roger sta diventando molto impaziente, ed ormai è quasi impossibile tener fermi gli uomini. Gli stanno divorando il patrimonio, e non passa notte senza che ci sia una rissa o un omicidio. Dobbiamo partire in fretta, o rinunciare del tutto».

«Allora vi prego di non partire,» risposi. «Almeno non su quella nave sbucata dall’Inferno».

Potevo vederne la guglia vertiginosa, ed il suo muso circondato dalle nubi più basse, che si ergeva al di là delle mura dell’Abbazia. E mi terrorizzava.

«Allora,» incalzò Sir Owain, «cosa ti ha detto il mostro?»

«Ha avuto l’impudenza di sostenere di non venire dalle viscere della terra, ma dall’alto. Addirittura dal cielo!»

«È… un angelo?»

«No. Afferma di non essere né un angelo né un demonio, ma solo un essere appartenente a un’altra razza, mortale come quella umana».

Sir Owain si accarezzò il mento ben rasato, con una mano.

«Potrebbe anche darsi,» disse pensoso, «in fondo, se esistono gli unipedi, i centauri, ed altri esseri mostruosi, perché non dovrebbero esistere anche questi goffi musi azzurri?»

«Lo so. Sarebbe una teoria ragionevole, se non fosse che lui sostiene di abitare in cielo».

«Dimmi che cosa ti ha riferito di preciso».

«Come volete, Sir Owain, ma ricordate che le empietà che vi riferirò non sono mie. Questo Branithar sostiene che la Terra non è piatta, bensì una sfera sospesa nello spazio. E poi va anche oltre, ed afferma addirittura che la Terra si muove attorno al Sole! Alcuni degli antichi eruditi sostenevano concetti similari, ma io non riesco proprio a capire che cosa impedirebbe agli oceani di riversarsi nello spazio o…»