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Da millenni di predominio dei ghiacci emerge così, su Canthor, una specie di gnomi più sagace e più abile nella lotta per il controllo dell’ambiente. Il nuovo gnomo è diventato un fabbricatore di utensili e ha imparato a sfruttare a proprio beneficio le ricchezze del pianeta. Su Canthor non c’è creatura vivente che gli stia a pari per intelligenza o che sia in grado di minacciarne l’esistenza. Lo gnomo prolifera così per l’intero pianeta, giungendo, con la sua rapacità, a dominarlo completamente.

Non conoscendo nemici naturali da centinaia di millenni, i serpenti collo azzurro di Canthor non hanno conservato l’aggressività e l’istinto di difesa del territorio necessari alla sopravvivenza nei momenti di pericolo. La loro dieta consiste da sempre soprattutto di piante e animali forniti a profusione dagli oceani del pianeta. Costituendo i mari una vera e propria cornucopia di cibo, i serpenti non si dànno gran pensiero quando gli gnomi cominciano a coltivare gli oceani come fonte di cibo per se stessi. Ma, per gli gnomi, la cui brama di territorio non conosce confini, i serpenti rappresentano quanto meno dei rivali nella conquista della ricchezza degli oceani e, considerata la loro mole e intelligenza, forse anche una possibile minaccia alla loro stessa sopravvivenza.

È di nuovo l’epoca della grande marea, e i serpenti maschi colloazzurro, completata in tempo la migrazione oceanica, s’affollano come al solito in faccia alle grandi scogliere vulcaniche. Questi maschi sono ormai solo poche centinaia, e lo spettacolo non è decisamente più quello degli anni sereni in cui si snodavano numerosi a perdita d’occhio. Come fa da millenni, ecco sorgere la gigantesca luna piena, che segue nel cielo le due lune minori, ed ecco l’ouverture che annuncia l’imminente sinfonia dell’accoppiamento. Stavolta, però, mentre la marea s’avventa in entrata a sommergere l’istmo, i serpenti sentono che qualcosa non va. Nel mistico canto d’accoppiamento s’insinua una nota sempre più cacofonica, e il suono riecheggia l’angoscia da una riva all’altra della terra che separa i serpenti. Quando la marea tracima finalmente dalle rocce vulcaniche, punto d’avvio del magnifico crescendo finale della sinfonia originaria d’accoppiamento, la notte di Canthor s’empie del lungo lamento dei serpenti.

Gli gnomi hanno eretto una gigantesca barriera lungo il dorso dell’istmo. D’altezza appositamente calcolata in modo da impedire il passaggio ai serpenti più grossi, questa opprimente barriera permette alle affascinanti creature dal collo azzurro di sentirsi vicinissime, se si tendono al massimo, ma non di toccarsi. Le notti della grande marea sono uno spettacolo straziante. Da ambo i lati i serpenti si avventano ripetutamente e invano contro la muraglia, nel disperato tentativo di entrare in contatto coi compagni. Ma ogni tentativo è vano: la barriera regge, e i serpenti si trovano nell’impossibilità di accoppiarsi. Profondamente rattristati e altrettanto profondamente consapevoli delle implicazioni della barriera per il proprio futuro, i due sessi si risolvono finalmente a tornare ai rispettivi oceani.

Alcuni serpenti, nel tentativo di infrangere la barriera, vi cozzano e ricozzano fin quasi alla perdita dei sensi. Questi feriti, da una parte e dall’altra dell’istmo, restano indietro per recuperare le forze; il resto della specie, ripresa la migrazione annua come ad accoppiamento normalmente avvenuto, s’allontana invece lentamente e tristemente, ciascun sesso diretto a un covo separato di Canthor.

La grande marea ha cessato di sommergere la terra fra gli oceani ormai da due notti. Due anziani serpenti maschi, i colli ancora ammaccati dai ripetuti e nudi sbattimenti contro l’odiata barriera, nuotano lenti insieme nella luce lunare. Dall’alto del cielo saetta rapida verso di essi una luce: tendono il collo per vedere che succede, ed essa, ferma sul punto, sembra inquadrarli come un faro.

I colli aggraziati si chinano e appiattiscono all’istante sull’oceano illuminato dalla luna. Dalla luce si stacca un oggetto, una sorta di cesta, che cala sull’acqua. I due serpenti vengono raccolti, sollevati silenziosamente in aria dal mare, come agganciati da un ignoto pescatore celeste. La medesima scena si ripete una dozzina di volte, prima nell’oceano occidentale coi serpenti feriti dal collo azzurro-cobalto, poi nell’oceano orientale coi loro compagni celesti. È come un grande raduno di bestiame: un raduno che ha per scopo la cattura di tutti i serpenti sfiniti che non sono stati in grado di seguire il resto della specie nella migrazione annuale.

Altissima nel cielo di Canthor, una gigantesca nave spaziale di forma cilindrica attende il ritorno dei suoi servi-robot. A venti miglia di distanza dalla sua estremità, questo pianeta viaggiante si apre su un fianco per accogliere uno stormo di veicoli in rientro che, grandi come grossi aeroplani, vengono a portargli le prede di Canthor. Il cilindro ruota lentamente sullo sfondo luminoso di Canthor e della sua luna gigante. Giunge quindi un veicolo ritardatario: sulla coda della nave si apre una porta a riceverlo e, per un po’, non si nota altra attività. Poi il cilindro si stende in orizzontale, accende numerosi piccoli razzi, e sparisce alla vista nel giro di secondi, lasciando Canthor per altri mondi.

La neve cade fitta e regolare sul colosso che avanza silenzioso nella foresta. Vestito di pelli, un grosso fardello sulla schiena e una grossa lancia in una mano, l’uomo volge la faccia pelosa e arruffata verso gli altri alle sue spalle, la sua famiglia, e li sprona ad affrettarsi con un grugnito. Sono cinque in tutto, una neonata in braccio alla donna e due adolescenti. Gli adolescenti vestono pelli come i genitori e portano grossi fardelli penduli sulla schiena. Il maschio ha anche una lancia. Da vicino, sembrano tutti stanchissimi, quasi sfiniti.

Per un momento escono dalla foresta per inoltrarsi in un prato che circonda uno stagno gelato. La neve continua a cadere, accumulandosi sui tre pollici già caduti. Il padre fa segno alla famiglia di fermarsi e si avvicina piano piano allo stagno. Mentre i membri della famiglia si stringono gli uni agli altri contro il freddo, l’uomo estrae un rozzo arnese dal proprio fardello e, spazzata la neve da un punto della superficie gelata, procede a tagliare il ghiaccio. Passa quasi un’ora. Finalmente ottiene il risultato voluto e, con un grugnito di soddisfazione, si china a bere. Poi estrae una pelle, la riempie, e porta acqua alla moglie e ai figli.

La figlia adolescente, all’offerta dell’acqua, gli sorride d’un sorriso d’amore e di ammirazione. Ha il volto stanco, segnato dal sole, dal vento e dal freddo. Alza il braccio per prendere la pelle; e, d’improvviso, il viso le si torce di paura. Manda un urlo, e il padre si volta appena in tempo per parare l’attacco di un lupo che gli sta volando addosso. Colpito il lupo con tutta la forza del possente braccio, e stornatolo così dal bersaglio, l’uomo corre alla meglio verso la lancia che ha lasciato a terra presso lo stagno, la afferra, e si volta di scatto, pronto a difendere la famiglia.

Questa è stata attaccata da tre lupi. Il figlio ne ha destramente impalato uno a metà corpo con la sua lancia, ma ora giace impotente nella neve sotto un secondo lupo, dal quale non può difendersi perché non è riuscito a estrarre in tempo la lancia dal lupo trafitto. Il padre si avventa freneticamente in avanti e trafigge con la propria lancia il lupo che sta sopra suo figlio. Ma è troppo tardi: il lupo famelico, trovata la gola del ragazzo, gli ha tranciato la giugulare con un solo, secco morso delle possenti mascelle.

Il cavernicolo, mulinando la lancia, si volge contro l’ultimo lupo. Sua moglie giace sanguinante nella neve, a qualche metro di distanza dalla figlia neonata, che, rimasta senza protezione, strilla nella pelle che la avvolge. L’ultimo lupo, reso prudente dalla mole dell’uomo, finge un assalto contro di lui, ma poi balza sulla neonata, e, prima che l’uomo possa reagire, trotta verso la foresta col fagottello in bocca.