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A confronto, tutto quello che era successo in precedenza era rose e fiori. Vidi Debs annodarsi lentamente la corda intorno al collo e lanciarsi nel vuoto, oscillando agonizzante su e giù, finché il capitano Matthews, pietosamente, fece un passo avanti e disse: — Basta con le domande. — Non sbatté mia sorella giù dal podio, ma era chiaro che dovette averci pensato.

Fissò torvo la folla omicida, come se il suo virile sguardo bastasse a ridurla all’obbedienza, e in effetti i presenti un po’ si calmarono. — Okay — disse. — Gli… uhm… familiari. — Si coprì la bocca con il pugno e si schiarì la gola, facendomi sospettare che Debs fosse contagiosa. — Il signore e la… uhm… signora Aldovar. Vorrebbero rilasciare una breve dichiarazione. — Il capitano annuì e fece un cenno con il braccio.

Uno stordito signor Aldovar condusse la moglie verso il microfono. La donna sembrava a pezzi e molto invecchiata, ma non appena si ritrovò davanti alla folla si ricompose visibilmente, spinse via il marito ed estrasse un foglio di carta. Strano a dirsi, ma i giornalisti tacquero per un istante.

— Per la persona o le persone che hanno rapito la nostra piccola… — esordì, poi dovette interrompersi e, per solidarietà, si schiarì anche lei la gola — la nostra Samantha — continuò. — Non siamo ricchi, ma tutto quel che abbiamo o riusciremo a procurarci è vostro. Soltanto, vi prego, non fate del male alla nostra bambina… vi prego… — Non riuscì a dire altro. Si coprì il viso con le mani e il foglio scivolò a terra.

Il marito si avvicinò, la prese tra le braccia e lanciò un’occhiataccia al pubblico, come se sapesse dove si trovava Samantha, ma non volesse dirlo. — È una brava ragazza — fece con rabbia. — Non c’è nessun motivo al mondo per… per… Vi prego — abbassò leggermente la voce. — Vi prego, lasciatela andare. Vi darò qualunque cosa, ma lasciatela andare… — Poi si incupì e si allontanò.

Il capitano Matthews fece qualche passo avanti e tornò a fissare severamente la sala. — Okay — disse. — Tutti voi avete una foto della ragazza, Samantha. Vi chiediamo di contribuire a diffonderla, e uhm… se qualcuno di voi la dovesse vedere, voi cittadini, intendo… potete chiamare il numero speciale della polizia e… anche voi giornalisti ce l’avete. E se riusciamo a far circolare questo numero, e la foto, troveremo quella ragazza. Viva. — Elargì al pubblico il suo pezzo forte, che consisteva in quello sguardo virile e determinato puntato verso le telecamere, lo sostenne per qualche istante, infine disse: — Grazie per la collaborazione. — Restò per un po’ immobile, con la mascella serrata, per permettere ai fotografi di immortalare per l’ultima volta i suoi tratti volitivi, poi concluse: — Okay, questo è tutto — e si congedò.

Come previsto, la sala precipitò nella confusione e nel caos, ma il capitano Matthews agitò un braccio e si voltò per rassicurare la famiglia Aldovar. Io mi misi a spingere per raggiungere Deborah e durante il tragitto ricevetti ed elargii svariate gomitate nelle costole. Mia sorella era in disparte, che apriva e chiudeva ripetutamente i pugni. Aveva le guance leggermente più colorite e appariva curiosamente stordita, come se qualcuno l’avesse svegliata da un brutto sogno.

— Se me lo fanno rifare di nuovo — disse tra i denti — mi strappo via il distintivo.

— Se provi a rifarlo di nuovo — osservai — ci penserà il capitano Matthews a strappartelo.

— Cristo. È stato davvero così terribile?

— Oh, no — feci. — Molto peggio.

Forse non me ne accorsi perché ero impegnato a fare del sarcasmo, ma Deborah mi colpì con uno dei suoi pugni al braccio. Da una parte, vedere che si stava riprendendo mi fece piacere, anche se dall’altra mi fece parecchio male.

— Ti ringrazio per il supporto — disse. — Adesso usciamo di qui. — Si voltò e si mise a sgomitare con violenza tra la folla, e io la seguii, massaggiandomi il braccio.

I giornalisti sono strane creature. Per far bene il loro lavoro devono avere un’alta considerazione di se stessi. Infatti quelli che avevano assistito alla pietosa performance di Deborah, benché abituati a incassare simili delusioni, dovevano credere che bastasse spingerle addosso un microfono e gridarle una domanda perché mia sorella cedesse al fascino delle loro chiome impeccabili e dei loro denti perfetti e si lasciasse sfuggire una risposta. Invece, purtroppo per la loro autostima professionale, Deborah si limitò a farsi largo verso l’uscita, abbattendo tutto ciò che le opponeva resistenza e sgomitando brutalmente i malcapitati che si trovavano sul suo cammino. Anche i giornalisti appostati vicino all’uscita, che avevano assistito alla sorte dei loro colleghi, avevano una considerazione così alta di se stessi che si comportarono nello stesso modo, meravigliandosi di ottenere lo stesso risultato.

Alcuni, per il fatto che fossi insieme a Deborah, mi scrutarono indagatori, ma dopo lunghi anni di diligente addestramento il mio travestimento era troppo ben riuscito per loro, e stabilirono che ero esattamente quel che apparivo: un essere totalmente insignificante senza risposte per nessuno. Quindi, quasi privo di molestie, spossato unicamente dai pugni al braccio di Deborah, riuscii a uscire dalla sala conferenze e a dirigermi con mia sorella verso il centro operativo della squadra, al secondo piano.

A un tratto, lungo il tragitto, Deke ci raggiunse e si appoggiò alla parete. Qualcuno aveva allestito una macchinetta del caffè. Deborah ne versò un po’ in un bicchiere di carta. Lo sorseggiò con una smorfia. — È peggio di quello del distributore — disse.

— Potremmo andare a far colazione — proposi speranzoso.

Debs abbassò la tazza e si sedette. — Abbiamo troppo da fare — dichiarò. — Che ore sono?

— Le otto e tre quarti — disse Deke. Deborah lo guardò acida, come se l’orario dipendesse da lui. — Che ci posso fare — aggiunse il poliziotto.

Si spalancò la porta e comparve il detective Hood. — Sono così fottutamente in gamba che mi spavento da solo — disse spavaldo, sedendosi di fronte a Deborah.

— Spaventa anche me, Richard — lo invitò Deborah. — Che cos’hai scoperto?

Hood estrasse un foglio dalla tasca e lo spiegò. — In tempo record — dichiarò — ecco a voi la Porsche decapottabile del 2009 di Tyler Spanos. — Schioccò il dito contro il foglio con un suono secco. — Un tipo che gestisce un’officina clandestina mi doveva un favore; gli avevo fatto avere una sospensione della pena lo scorso anno. — Il foglio schioccò un’altra volta. — Si trova in una carrozzeria abusiva, a Opa-Locka — continuò. — Ho appena mandato un’autopattuglia a fermare i tipi che la stavano riverniciando, due haitiani. — Gettò il foglio sulla scrivania, di fronte a Deborah.

— Chi è il capo, qui? — fece.

— Alza i tacchi — replicò Debs. — Voglio sapere chi gliel’ha venduta, di come ci sei arrivato non mi interessa.

Hood le rivolse un sorriso largo e feroce. — Fico — commentò.

— Adoro questo lavoro, certe volte. — Si alzò dalla sedia con una grazia sorprendente e se ne andò, fischiettando Here Comes the Sun.

Deborah lo guardò allontanarsi e, non appena si richiuse la porta, disse: — Il nostro primo risultato, e quella testa di cazzo vuol prendersene il merito.

— Risultato… sicura? — obiettò Deke. — Se l’hanno riverniciata, non ci sarà più nessuna impronta.

Deborah lo guardò con una faccia che, se fossi stato al posto suo, mi sarei nascosto sotto il tappeto. — C’è sempre qualche stupido, Deke — disse, sottolineando più del dovuto la parola “stupido”. — Avrebbero dovuto ficcare l’auto in un inghiottitoio, ma qualcuno ci teneva a tirare su in fretta un paio di migliaia di dollari, o giù di lì, così l’hanno venduta. E se scopriamo chi è stato…

— Troviamo la ragazza — fece Deke.