— Quando arriveranno le ciambelle — feci speranzoso.
— Be’, alours sta’zitto, visto che non arriveranno — replicò Vince, senza accorgersi che le sue parole non avevano senso in nessuna lingua, figuriamoci in francese.
Ma non ero responsabile della sua istruzione, così lasciai correre e ci concentrammo sul campione prelevato dalla coppa del party cannibale.
Entro mezzogiorno nel nostro piccolo laboratorio avevamo sperimentato quasi ogni test possibile e scoperto un paio di cose inutili. Primo, che l’ingrediente base della brodaglia era una popolare bevanda energetica ad alto numero di ottani. Vi era stato aggiunto sangue umano e, nonostante il campione fosse piccolo e piuttosto degradato, ero ragionevolmente certo che provenisse da fonti diverse. Ma l’ultimo ingrediente, quello organico, continuava a restare sconosciuto.
— Va bene — dichiarai infine. — Proviamo ad arrivarci in un modo diverso.
— E come? — fece Vince. — Con una tavoletta Ouija?
— Quasi — dissi. — Che ne dici se utilizziamo la logica induttiva?
— Okay, Sherlock. Sarà di sicuro più divertente della solita gascromatografia.
— Mangiare i tuoi amici umani non è naturale — esordii, cercando di immedesimarmi in uno dei presenti al festino, ma Vince interruppe la mia lenta discesa in trance.
— Che cosa dici… stai scherzando? — replicò. — Ma ti sei documentato? Il cannibalismo è la pratica più naturale del mondo.
— Non nel ventunesimo secolo a Miami — obiettai. — L“‘Enquirer” la pensi come vuole.
— Eppure è solo una questione culturale.
— Per l’appunto — dissi. — Il nostro tabù al riguardo è così forte che bisogna trovare un modo per infrangerlo.
— Be’, quelli bevevano il sangue, quindi il passo successivo non era poi tanto strano.
— Abbiamo una folla — dissi, tentando di zittire Vince e immaginarmi il quadro. — Gente che si carica con le bevande energetiche, si lascia eccitare dall’ecstasy ed è tutta presa psicologicamente dalla scena… forse si sente anche suonare una specie di musica ipnotica… — Non appena mi resi conto di quel che stavo dicendo mi bloccai.
— Come? — fece Vince.
— Ipnotica — ripetei. — Quel che manca è un qualcosa che predisponga la folla in uno stato mentale recettivo. Qualcosa che agisca insieme alla musica e a tutto il resto rendendo la gente suggestionabile.
— Marijuana — suggerì Vince. — Mi fa sempre venire un certo languorino.
— Merda — feci, mentre un debole ricordo si faceva strada nella mia mente.
— No, la merda non funziona — intervenne Vince. — E poi è cattiva.
— Come tu abbia scoperto che gusto ha, non lo voglio sapere — dissi. — Dov’è quel librone con i bollettini della Squadra Narcotici?
Lo trovai. Si trattava di un grosso raccoglitore a tre anelli in cui conservavamo i rapporti più interessanti che ci inviava la Narcotici. Mi bastò sfogliarlo per qualche minuto e individuai la pagina che ricordavo. — Ecco — indicai. — È questo.
Vince lesse. — Salvia divinorum… ne sei sicuro?
— Da un punto di vista puramente logico induttivo, sì.
Annuì lentamente. — “Elementare, Vince”, ecco che cosa dovresti dire.
— È una cosa relativamente nuova — spiegai a Deborah. Eravamo seduti nella sala operativa della squadra insieme a Vince, con Deke in piedi alle sue spalle. Indicai la pagina sul libro della Narcotici. — Nella contea di Miami la salvia è stata dichiarata illegale un paio d’anni fa.
— La conosco quella fottuta salvia — intervenne Debs, secca. — E non ho mai sentito che avesse altri effetti, se non istupidire la gente per qualche minuto.
Annuii. — Certo — dissi. — Ma non sappiamo che cosa può fare in dosi massicce, specialmente associata con quest’altra roba.
— Per quel che ne sappiamo — aggiunse Vince — potrebbe anche non fare assolutamente nulla. Ma qualcuno ha pensato che mescolarla con il resto fosse fico.
Deborah lo scrutò a lungo. — Hai idea di quanto questa spiegazione faccia fottutamente acqua?
— Un tipo a Syracuse se n’era fumata un po’ — disse Deke. — E poi aveva cercato di buttarsi. — Ci guardò e alzò le spalle. — Giù nel cesso, intendo.
— Se vivessi a Syracuse, nel cesso mi ci butterei anch’io — replicò Deborah.
Deke fece un gesto spazientito.
— Ehm — dissi, sforzandomi coraggiosamente di non divagare. — In questo caso quel che conta non è perché l’hanno usata, ma che sia stato fatto. Considerata la quantità di gente, ne avranno utilizzata parecchia. E se ne serve così tanta…
— Ehi, potremmo risalire facilmente allo spacciatore — disse Deke.
— A fare due più due ci arrivo ancora — saltò su Deborah.
— Deke, corri alla Narcotici. Chiedi al sergente Fine un elenco dei più grossi trafficanti di salvia della zona.
— Sarà fatto. — Deke mi strizzò l’occhio. — Ci vuole un po’ d’iniziativa, no? — Fece il gesto di puntarmi addosso una pistola e abbassò il pollice di scatto. — Bum — esclamò con un sorriso, mentre si allontanava. Appena uscito dalla porta per poco non sbatté addosso a Hood, che gli diede uno spintone e raggiunse il nostro gruppetto, sfoggiando un sorriso largo e per nulla attraente.
— Sei in compagnia dell’intellighenzia, vedo — disse a Debs.
— Sono in compagnia di due nerds e di un coglione — rispose lei.
— Ehi — obiettò Vince. — Noi non siamo nerds. Siamo geeks.
— Aspetta e vedrai — annunciò Hood.
— Che cosa dovrei vedere, Richard? — fece mia sorella, acida.
— Ho trovato quei due haitiani — disse. — Vedrai che ne varrà dannatamente la pena, garantito.
— Lo spero bene, Richard, perché ne ho dannatamente bisogno — rispose Debs. — Dove sono?
Hood aprì la porta e fece cenno a qualcuno in corridoio. — Dentro — disse, e due individui gli sfilarono accanto.
Erano molto magri e di colore. Avevano le manette ed erano stati spinti dentro da un poliziotto in divisa. Il primo prigioniero era leggermente claudicante, il secondo sfoggiava un occhio gonfio e un po’ chiuso. Vennero sospinti gentilmente al cospetto di Deborah, mentre Hood tornava ad affacciarsi in corridoio, guardando da entrambe le parti come se cercasse qualcuno. — Ehi, Nick! Per di qua! — esclamò infine, e una terza persona ci raggiunse.
— Mi chiamo Nichole — disse, rivolta a Hood. — Non Nick. — Hood le lanciò un sorrisetto e lei scosse il capo, facendo svolazzare una lucente massa di ricci scuri. — Senza contare che per te sarei la signorina Rickman. — Lo guardò dritto negli occhi, ma Hood non abbandonava il suo sorrisetto, così la donna rinunciò e si avvicinò al tavolo. Era alta, vestita alla moda e portava con sé un grosso album per gli schizzi e parecchie matite. Era l’artista forense della Scientifica.
Deborah la salutò con un cenno. — Nichole. Tutto bene?
— Sergente Morgan — rispose. — Fa sempre piacere disegnare qualcuno che non è morto. — Inarcò il sopracciglio. — Perché non lo è, vero?
— Spero proprio di no — rispose Deborah. — Visto che è la mia migliore possibilità per salvare quella ragazza.
— Okay — disse Nichole — proviamoci. — Posò l’album con le matite sul tavolo, si sedette e si preparò a disegnare.
Intanto Deborah osservava i tizi condotti da Hood. — Che cosa è capitato a questi due? — chiese al detective.
Lui alzò le spalle con una faccia da santarellino. — In che senso?
Debs lo fissò ancora per un po’, ma l’uomo si appoggiò alla parete, facendo l’indifferente. Si rivolse allora ai prigionieri. — Bonjour — disse.