— Friggilo. — Deborah saltò su dalla sedia e si diresse verso l’uscita.
— Al tuo socio che cosa gli dico? — fece Hood.
— Digli di informarsi sugli spacciatori di salvia — rispose.
— Forza, Dex.
Mi venne in mente che stavo passando un’incredibile quantità del mio tempo a seguire mia sorella come un cagnolino. Non mi venne in mente, però, come fare a sottrarmi, così lo feci anche stavolta.
Deborah imboccò la Dolphin Expressway, poi puntò verso nord sulla 95. Non fornì altre informazioni, ma non era così difficile capire dove sarebbe andata, quindi, tanto per amor di conversazione, le chiesi: — Hai scoperto un modo per rintracciare Bobby Acosta semplicemente fissando la sua fotografia?
— Già — replicò scontrosa. Il sarcasmo non era mai stato il suo forte. — Praticamente.
— Wow — feci, riflettendo un istante. — L’hai scoperto tramite la lista di nomi del dentista? Di quei tipi con le zanne da vampiro?
Deborah annuì, aggirando un pickup con rimorchio. — Esatto — disse.
— Ma non li hai già verificati insieme a Deke?
Debs mi guardò, il che non mi parve affatto una buona idea, visto che andavamo ai centoquaranta. — Ne manca uno — rispose.
— Ma è quello buono. Lo so.
— Occhio — feci, e Debs tornò a concentrarsi sulla strada appena in tempo per evitare una grossa autocisterna che aveva inspiegabilmente deciso di cambiare corsia.
— Quindi pensi che l’ultimo nome della lista ci permetterà di trovare Bobby Acosta? — chiesi.
Deborah annuì energicamente. — Me lo sentivo fin dall’inizio — disse, spostandosi nella corsia di destra con un solo dito sul volante.
— E allora l’hai lasciato per ultimo?… Deborah! — urlai, mentre un paio di moto ci tagliavano la strada e poi rallentavano in cerca dell’uscita.
— Già — rispose, atterrando nella corsia centrale.
— L’hai fatto per aumentare la suspense?
— L’ho fatto per Deke — replicò. Notai con entusiasmo che finalmente guardava la strada. — È soltanto che… — Esitò per un istante, poi lo disse: — Quel tipo porta iella.
Era da un bel po’ che passavo la vita in mezzo ai poliziotti e mi aspettavo che sarebbe stato così anche in futuro, specie se un giorno mi avessero scoperto. Sapevo dunque che pensieri superstiziosi possono venir fuori nelle situazioni più improbabili ma, nonostante tutto, sentirne parlare mia sorella mi stupì. — Porta iella? — ripetei. — Debs, vuoi che chiami un santero? Magari si mette a sgozzare un pollo e…
— Lo so che può sembrare strano, dannazione — fece lei. — Ma che altro può essere?
Potevano essere un sacco di altre cose e me ne vennero in mente parecchie, ma tacqui per diplomazia.
E Debs continuò. — Okay, forse sono tutte stronzate — disse.
— Ma per questo caso mi serve un po’ di fortuna. C’è un conto alla rovescia in atto e quella ragazza… — Si interruppe come colta da una forte emozione.
La guardai sorpreso. Il sergente di ferro che provava emozioni?
Deborah non si voltò, limitandosi a scuotere il capo. — Sì, lo so — disse. — Non dovrei farmi prendere. È solo che… — Alzò le spalle, irritata, il che mi sollevò. — Ultimamente mi sento un po’… uhm… non saprei. Un po’ strana, ecco.
Ripensai agli ultimi giorni e mi accorsi che aveva ragione: mia sorella si era dimostrata incredibilmente vulnerabile ed emotiva.
— Sì, è vero — osservai. — E come mai, secondo te?
Deborah sospirò profondamente, altra cosa che non faceva spesso.
— Forse… non saprei — rispose. — Chutsky dice che è colpa della coltellata. — Scosse il capo. — Dice che è come la depressione post parto, che ti fa sentir male dopo un evento fortemente doloroso.
Annuii. Un senso ce l’aveva. Recentemente Deborah era stata accoltellata ed era andata così vicina alla morte per dissanguamento che un ritardo di pochi secondi dei soccorsi le sarebbe stato letale. Di sicuro il suo compagno Chutsky di situazioni simili aveva una certa esperienza: prima del suo infortunio era una specie di agente dei servizi segreti e aveva il corpo costellato di cicatrici.
— Comunque — feci — non devi permettere che questo caso prenda il sopravvento su di te. — Mi tenni in guardia, certo che la mia battuta volesse dire un pugno al braccio assicurato, invece ancora una volta Deborah mi sorprese.
— Lo so — mormorò — ma non ci posso fare niente. È solo una ragazzina. Brava a scuola, con una famiglia che le vuol bene… nelle mani di quei cannibali. — Scivolò in un silenzio cupo e riflessivo, in stridente contrasto con la velocità che teneva nel traffico.
— Non è facile, Dexter — disse infine.
— Immagino.
— Forse mi immedesimo nella ragazzina perché la sento vulnerabile come sono io adesso. — Fissava la strada, ma non sembrava vederla davvero, il che mi allarmò lievemente. — E tutto il resto. Non saprei.
Sarà perché stavo vendendo cara la vita su un veicolo scagliato a rotta di collo in mezzo al traffico, ma non riuscii a cogliere dove volesse arrivare. — In che senso, tutto il resto? — chiesi.
— Ah, be’, lo sai — fece, anche se le avevo detto piuttosto chiaramente che non lo sapevo. — La storia della famiglia. Cioè… — Si incupì e mi lanciò un’occhiataccia. — Se ti sfugge una sola fottuta parola con Vince o con altri sul ticchettio del mio orologio biologico, giuro che t’ammazzo.
— Perché, sta ticchettando? — domandai, piuttosto meravigliato.
Deborah mi guardò torva per un attimo poi, fortunatamente per la mia incolumità, tornò a fissare la strada. — Già — disse. — Lo sento. Ho proprio voglia di una famiglia, Dex.
Immagino che avrei dovuto dirle qualcosa di confortante basato sulla mia esperienza: forse che la famiglia è un’istituzione sopravvalutata e i bambini sono soltanto un inquietante mezzo per farci sentire prematuramente vecchi e stupidi. Invece pensai a Lily Anne e all’improvviso desiderai che anche mia sorella avesse una famiglia per provare i miei stessi sentimenti. — Bene — dissi.
— Merda, l’uscita! — esclamò Deborah, immettendosi sulla rampa con una brusca sbandata.
L’atmosfera si dissolse e io persi il senso di quel che volevo dire. Il cartello, che lampeggiava a pochi centimetri dalla mia testa, annunciava che eravamo diretti a North Miami Beach, una zona di abitazioni e negozi modesti che negli ultimi vent’anni non era cambiata molto. Un quartiere insolito per un cannibale.
Al termine della rampa, Deborah rallentò e si infilò nel traffico, anche se continuava comunque ad andare troppo veloce. Guidò per alcuni isolati a est, poi a nord, infine svoltò in una zona composta da sei o sette complessi abitativi in cui i residenti avevano fatto crescere delle siepi per sbarrare le strade d’accesso, lasciando libera soltanto la via principale. In quella parte della città si trattava di una pratica comune per difendersi dal crimine. Nessuno mi aveva mai detto se funzionava.
Entrammo in quella minicomunità e, dopo due isolati, Debs accostò sull’erba, davanti a una modesta casa giallo pastello, e spense il motore. — È questa — disse, lanciando un’occhiata al foglio che teneva sul sedile. — Il tipo si chiama Victor Chapin e ha ventidue anni. L’abitazione è di proprietà della vedova di Arthur Chapin, sessantatré. Lavora in centro.
Osservai la casetta. Era lievemente sbiadita e piuttosto ordinaria. Non c’erano pile di teschi ammonticchiate fuori, né simboli del malocchio dipinti sui muri, nessun segno che indicasse la presenza del male. Una Mustang di una decina d’anni era parcheggiata nel vialetto e tutto sembrava immobile e tranquillo.
— Vive con sua madre? — domandai. — Ai cannibali è permesso?
Debs scosse il capo. — A lui sì — fece, spalancando la portiera.