— Andiamo.
La vidi scendere dalla macchina e dirigersi impettita verso l’ingresso. Ripensai alla volta in cui aveva fatto la stessa cosa e io ero rimasto in macchina ad aspettarla, mentre lei veniva pugnalata. Ci restai male, così mi alzai di scatto e la raggiunsi nel momento in cui suonava il campanello. Dall’interno della casa proveniva una complicata sinfonia, difficile da inquadrare, ma molto drammatica.
— Notevole — commentai. — Mi ricorda Wagner.
Deborah scosse il capo e batté impazientemente il piede sul porticato in cemento.
— Forse sono tutti e due al lavoro — ipotizzai.
— Impossibile. Victor lavora in un locale notturno di South Beach — disse Debs. — Il posto si chiama Zanne. E non apre prima delle undici.
All’improvviso percepii un tremito percorrere il suolo delle mie cupe e remote segrete interiori. Zanne. L’avevo già sentito, ma dove? Sul “New Times”? O in uno dei racconti di Vince Masuoka sulle sue prodezze nei locali notturni? Non riuscivo a ricordarmene e, quando Deborah, rabbiosa, premette un’altra volta il campanello, non ci pensai più.
Dall’interno, la musica crebbe di nuovo, ma stavolta, proprio nel bel mezzo dell’accordo più toccante, si udì qualcuno gridare: — Cazzo! Arrivo! — La sinfonia cessò e pochi secondi dopo la porta si aprì.
Un individuo, che presumibilmente doveva essere Victor Chapin, comparve sulla soglia, scrutandoci ostile. Era magro, alto circa uno e settanta, con i capelli scuri e la barba di qualche giorno. Indossava i pantaloni del pigiama e una canotta da muratore. — Eh, che cavolo! — esclamò aggressivo. — Stavo cercando di dormire!
— Victor Chapin? — domandò Deborah.
Il suo tono da poliziotta dovette averlo colpito, perché si irrigidì all’improvviso e si mostrò un po’ più sulle sue. Si inumidì le labbra con la lingua e per un istante intravidi uno dei canini rivestiti del dottor Lonoff. — Che cosa… perché? — chiese, guardando ripetutamente me e Debs.
— Sei tu Victor Chapin? — ripeté lei.
— Voi chi siete?
Deborah estrasse il distintivo. Chapin capì di che cosa si trattava ancora prima che lei glielo mostrasse ed esclamò: — Cazzo! — tentando di sbatterci la porta in faccia.
Per puro istinto, infilai il piede in mezzo e la porta rimbalzò, finendogli in faccia. Chapin si voltò e corse verso il retro della casa.
— L’uscita posteriore! — gridò Deborah, precipitandosi a fare il giro della casa. — Tu resta qui! — E scomparve dietro l’angolo.
Sentii una porta sbattere in lontananza, Deborah che urlava a Chapin di fermarsi, poi più nulla. Ripensai di nuovo a quando mia sorella era stata accoltellata e al senso di vuota impotenza che avevo provato su quel marciapiede, mentre la vita lentamente l’abbandonava. Debs non aveva modo di sapere se Chapin si fosse davvero diretto verso l’uscita posteriore. Avrebbe potuto benissimo entrare in cerca di un lanciafiamme. E ora avrebbe potuto attaccarla.
Diedi una sbirciata all’interno, ma era scuro e non si vedeva niente, né si udivano suoni, a eccezione del ronzio del condizionatore.
Uscii e aspettai. Aspettai ancora. Continuava a non succedere nulla, né si sentivano rumori. Poi percepii una sirena in lontananza. Un aereo che mi volava sulla testa. Da qualche parte, lì intorno, qualcuno accordava una chitarra e si metteva a suonare Abraham, Martin and John.
Proprio quando avevo deciso che non avrei più aspettato e che sarei andato a dare un’occhiata, udii una voce petulante levarsi dal prato di fianco: comparve Victor Chapin, con le braccia ammanettate dietro la schiena, e Deborah dietro che lo sospingeva verso la macchina. Il ragazzo aveva il pigiama macchiato d’erba sulle ginocchia e metà della faccia paonazza. — Non puoi… cazzo… un avvocato… merda! — borbottava.
Non so se si trattasse di un parlare smozzicato in voga tra i cannibali, ma Deborah non si lasciò impressionare. Si limitava a spingerlo avanti e, mentre mi affrettavo a raggiungerla, mi accorsi che negli ultimi tempi non l’avevo mai vista così soddisfatta.
— Ma cazzo! — Stavolta Chapin si rivolgeva a me.
— Eh, già — lo assecondai.
— Cazzo! — urlò.
— Sali in macchina, Victor — disse Deborah.
— Non potete… ma come! — fece. — Dove mi volete portare?!
— All’istituto di detenzione — rispose lei.
— Non potete… cazzo — protestò.
Mia sorella sorrise. Non ho incontrato molti vampiri, ma credo che il suo sorriso fosse più inquietante di tanti succhiasangue messi insieme. — Victor, scappando hai opposto resistenza a un pubblico ufficiale. Quindi vuol dire che, cazzo, posso portarti via — disse. — E lo farò, cazzo, e tu risponderai per me ad alcune cazzo di domande altrimenti non vedrai la luce del sole per un bel po’.
Il ragazzo aprì la bocca e trasse un respiro. All’improvviso i suoi canini lucenti non mi parvero poi così minacciosi. — Quali domande? — volle sapere.
— Sei andato a qualche bel party, ultimamente? — gli chiesi.
Ho sentito spesso parlare, e ho anche letto, di quando il sangue non arriva più alla testa, ma era la prima volta che assistevo di persona a tale fenomeno, eccezion fatta per quel che capitava durante il mio hobby segreto. Victor si fece più pallido della sua canottiera e, prima che Debs facesse in tempo a lanciarmi un’occhiataccia perché avevo parlato senza il suo consenso, esclamò: — Giuro su Dio che non ne ho mangiata neanche un po’!
— Di che cosa, Victor? — chiese amabilmente Deborah.
Ora Victor tremava e agitava la testa su e giù. — Mi ammazzeranno — mormorò. — Cazzo se mi ammazzeranno, Gesù santo.
Deborah mi rivolse un rapido sguardo carico di gioioso trionfo. Poi posò una mano sulla spalla del ragazzo e lo sospinse gentilmente verso la macchina. — Sali, Victor — disse.
21
Durante il viaggio verso l’istituto di detenzione Deborah non parlò molto. Tentò di chiamare Deke, per dirgli di farsi trovare laggiù, ma inspiegabilmente non ottenne risposta, né alla radio né al cellulare. Debs lasciò detto in centrale di raggiungerci e, a parte quello, viaggiammo in silenzio, sempre se così si può definire il sorbirsi un monologo sconclusionato di una decina di minuti incentrato unicamente sulla parola “cazzo”. Chapin era stato assicurato al sedile posteriore (non per niente le auto di servizio sono dotate di anelli imbullonati al pavimento) e sedeva borbottando, inveendo e minacciando, sempre per mezzo del solito termine. Per conto mio, fui lieto quando arrivammo a destinazione, ma a Debs andare avanti all’infinito non sarebbe dispiaciuto. Ogni volta che guardava Chapin attraverso lo specchietto un sorriso si dipingeva sul suo viso e, quando parcheggiammo e lo trascinammo fuori, era il ritratto della felicità.
Compilate le pratiche, Victor fu comodamente rinchiuso nella sala interrogatori e Chambers dell’FDLE venne a vedere la nostra preda. Ci raggiunse mentre lo osservavamo dall’esterno: Chapin aveva poggiato gli avambracci sul tavolo e si era lasciato cadere in avanti, la testa che penzolava a pochi centimetri dalle manette.
— D’accordo — fece Chambers. — È superfluo ricordarle che si deve agire con cognizione di causa. — Deborah lo scrutò allarmata, ma lui ignorò il suo sguardo e proseguì. — Ha fatto un buon lavoro, Morgan; abbiamo qui un perfetto indiziato e, se ci atteniamo scrupolosamente alle regole, con un pizzico di fortuna riusciremo ad accollargli un paio di reati.
— Non è il verdetto di colpevolezza che mi interessa — fece Deborah. — Voglio salvare quella ragazza.
— Tutti lo vogliamo — disse Chambers. — Ma sarebbe altrettanto bello riuscire a mettere al fresco quest’individuo.
— Mi ascolti — insistette Deborah. — Questa non è una questione di politica o di pubbliche relazioni.